mercoledì 28 maggio 2008

240° ANNIVERSARIO NOZZE DI MARIA CAROLINA E FERDINANDO DI BORBONE



Si è svolta come da programma la commemorazione del 240° anniversario delle nozze di Maria Carolina, regina del Regno delle Due Sicilie, con Ferdinando di Borbone.

In occasione della ricorrenza è stato affisso un manifesto a ricordo di tale evento e sono stati depositati un mazzo di gigli in via Carolina, all'angolo di Corso Italia.

Via Carolina è molto importante per Giarre, perchè è la ex via principale, infatti come Via Callipoli, taglia in due la nostra città. In occasione delle nozze tra Ferdinando I di Borbone e Maria Carolina d'Asburgo, i giarresi vollero dimostrare il loro affetto nei confronti dei sovrani, dedicando loro questa antica arteria.

E' proprio dalla fine del XVIII° secolo , in pieno periodo borbonico, che inizia il boom economico di Giarre, che finirà in concomitanza con l'Unità d'Italia, periodo in cui iniziò una lenta ma inesorabile decadenza che perdura ancora oggi...

L'inziativa è stata organizzata dai compatrioti Emanuele Vitale, Elisa Cristaldi, Rosario e Francesco Rodolico, Luca Barrese, Maria Indelicato.
















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venerdì 23 maggio 2008

Visita e commemorazione a Fenestrelle(TO), il lager dei Savoja.


In provincia di Torino, su quelle alpi che hanno reso famose località turistiche come Sestrière e Pinerolo, esiste un'immensa fortezza che si estende per centinaia di metri sia in altezza che in lunghezza.

Chi si reca da quelle parti, difficilmente sospetterebbe che all'interno di quelle mura si verificarono delle atrocità che, anticiparono di parecchi decenni, cio che avvenne nei campi di concentramento nazisti...



Un po di storia...

Le palle al piede, i ceppi e le catene, con il finire del XIX secolo,
diventano
solo un ricordo drammatico del vecchio carcere duro del regno
sardo. Oggi da più parti si ricorda il periodo in cui la fortezza divenne un
campo di concentramento per truppe borboniche e papaline. Recenti ricerche
sottolineano le pessime condizioni in cui nel 1861 questi militari furono
«ospitati» a Fenestrelle: laceri e poco nutriti era usuale vederli
appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i
timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di
altri climi mediterranei.
E’ noto un tentativo di ribellione ideato dai reclusi, piano sventato quasi per
caso dalle autorità piemontesi.

(tratto dal sito ufficiale del Forte di fenestrelle)


II ruolo di prigione di stato è stata la principale caratteristica di questa fortezza per molti anni: sia sotto la dominazione napoleonica che, in seguito, sabauda. Molti furono i sacerdoti e i nobili che vi vennero duramente incarcerati per motivi politici prima del 1860. Ma Fenestrelle fu, soprattutto, il luogo di condanna di migliaia di soldati napoletani, siciliani, calabresi, pugliesi, lucani che preferirono la prigionia pur di non abiurare il giuramento di fedeltà alla loro Patria, il Regno delle Due Sicilie. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.

Le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860. Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri e affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo e vari altre località del nord. In quei luoghi, veri e propri lager, appena coperti di cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di schifoso pane nero, subendo dei trattamenti veramente bestiali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti e malattie.
Quelli deportati a Fenestrelle, ufficiali, sottufficiali e soldati, subirono il trattamento piú feroce, ma mai domi circa un migliaio tentarono perfino di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della Fortezza. La rivolta fu purtroppo scoperta in tempo e il tentativo ebbe come risultato l’inasprimento delle pene con i piú costretti con palle al piede da 16 kg, ceppi e catene. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. La liberazione avveniva solo con la morte e i corpi venivano disciolti nella calce viva. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo.


Fenestrelle, soldati in uniforme borbonica onorano i caduti.
Comitati delle Due Sicilie
In occasione della Commemorazione di Fenestrelle dei soldati del Regno delle Due Sicilie allestita dalla ASSOCIAZIONE DUE SICILIE DI TORINO, il Comitato Storico della Lombardia sarà presente all’evento Davide Cristaldi cell. 340-7640740 CSS - SICILIA

Come arrivare a Fenestrelle

Aereo: scalo all’ aereoporto di Torino Caselle, distante circa 60 Km. La società autolinee SAPAV (http://www.sapav.it/) garantisce i collegamenti interni alla valle con più corse giornaliere in coincidenza con l’orario della linea Torino - Perosa Argentina - Fenestrelle.

Auto : dalla tangenziale di Torino imboccando a Stupinigi la strada statale n. 23 (SS23) del Sestriere oppure l’autostrada di recente costruzione passante per Orbassano/Volvera. Dalla val di Susa immettersi sulla strada statale n. 24 (SS24) direzione Cesana Torinese quindi seguire la strada statale n. 23 (SS23) direzione Sestriere e proseguire verso Fenestrelle. La val Chisone e Fenestrelle è facilmente accessibile dalla Francia attraverso il colle del Sestriere, utilizzando il valico del Monginevro o il traforo autostradale del Frejus (Km. 35 da Briançon).

Autobus: In autobus, (autolinee SAPAV) con numerose corse giornaliere da Torino, via Pinerolo, e con una corsa giornaliera dalla Francia (Briançon, Gap, Marsiglia e Grenoble).

Treno: avvalendosi della linea Torino - Pinerolo (http://www.trenitalia.com/) coincidenza con le autolinee SAPAV.


Programma - DOMENICA 6 LUGLIO 2008

Ore 09.30 – Incontro degli invitati e dei convenuti nella Piazza del Forte San Carlo di Fenestrelle.

Ore 10.00 – Visita breve (durata un’ora con guida) della parte bassa del complesso riguardante il solo Forte San Carlo. Per effettuare la visita è obbligatoria la prenotazione al nr. 0121 83600

11.30 – Santa Messa e Deposizione di una corona di fiori ai nostri Soldati Caduti nella fortezza.

Ore 13.00 – Pranzo presso il Forte di Fenestrelle oppure presso i numerosi ristoranti e trattorie della zona.Per motivi di organizzazione si pregano i riceventi di questo messaggio di comunicarlo e farlo diffondere in ogni modo a tutte le persone ed enti privati e pubblici anche all’estero che possano essere interessati; si raccomandano inoltre gli eventuali partecipanti di voler comunicare la loro adesione alla Associazione Due Sicilie di Torino – Via Principe Tommaso, 33 – 10125 Torino.Tel. 011 66 88 204 – e-mail: duesicilie.torino@libero.it

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Il ritorno dei russi, come ai vecchi tempi.


Sembra passata un'eternità da quando lo Zar Russo Nicola I, dopo una visita allo stabilimento ferroviario di Pietrarsa a Napoli, rimase talmente stupefatto che ne volle fare costruire uno identico a Kronstadt[1].
Per ricambiare Nicola I donò a Ferdinando II i famosi Cavalli di Ferro che sono attualmente situati davanti al cancello dei giardini di palazzo reale e sono identici a quelli presenti a S. Pietroburgo, sul Ponte della Neva.

Anche in Sicilia, lo Zar non mancava mai di farsi vedere, celebre il viaggio alla fine del 1845, per accompagnare la consorte Aleksandra Fedorovna di Prussia, il cui medico aveva prescritto una "cura" a base di sole e di mare.La coppia imperiale sbarcò a Palermo il 23 ottobre dal piroscafo "Kamcatka", trattenendosi tra la Sicilia e Napoli per oltre un mese.
I coniugi reali erano soliti trascorrere i periodi di riposo all' "Olivuzza", località in cui possedeva una villa Varvara Šachovskaja, vedova di George Wilding, il quale le aveva lasciato in eredità la casa appartenuta alla prima moglie Caterina Branciforti di Butera.

Le cronache dell'epoca raccontano come i nobili palermitani più in vista, facessero a gara per invitare gli Zar a visitare le proprie dimore. Non era raro che principi e baroni finissero al banco dei pegni e spendessero dei veri e propri capitali in sontuosissime cerimonie.

Ma i rapporti tra il regno borbonico e l'impero russo spaziavano anche nel campo dell'arte, come dimostra la testimonianza di una giovane pittrice russa, Irina Fedorova, che sembra aver centrato in pieno il problema:

- Sarò banale se vi dico che moli italiani criticano l’Italia del Sud. Certi individui vorrebbero addirittura trasferire la capitale a Milano. Perché Roma per loro non è abbastanza “nordica”.Invece noi, russi, siamo infinitamente grati proprio al Meridione.Volete sapere perché?Perché a partire dal XVIII secolo l’Italia, e specialmente il Regno delle Due Sicilie, sono diventate la culla dei migliori talenti russi: pittori, scrittori, compositori, critici letterari. Il famoso scrittore russo Nikolaj Gogol, l’autore del “Le anime morte”, “Taras Bulba” e numerosi racconti satirici, ha passato molto tempo in Italia.Il meridione italiano affascinava sopratutto i pittori russi. Silvester Scedrin è arrivato nel Regno delle Due Sicilie nell’età di 27 anni ( nel 1818) per fare un corso triennale di pittura. Però il destino gli ha preparato un’altra sorte. E’ rimasto per tutta la vita in Italia ed ha immortalato nelle sue opere l’acqua color smeraldo del mar Tirreno ed il sole splendente del sud. Il pittore ha vissuto in Campania per il resto dei suoi giorni.Nei quadri di Scedrin si vede sempre la gente semplice, vera: i pescatori, i mercanti, le contadine, i mendicanti.I lavori dell’artista sono così vivi e caratteristici che il fratello dello zar russo, Mihail Pavlovic, gli commissiona i quadri sulla tematica napoletana.Tutti conoscono la canzone napoletana “O sole mio”. Però pochi sanno che proprio questa canzone è stata scritta in Italia dai musicisti di corte di un mecenate russo, il conte Polenov. E la sua prima interpretazione è avvenuta in Russia, a San Pietroburgo. -






Silvester Scedrin. “Lungomare Mergellina a Napoli” - 1827.


Il ritorno della Russia

Da qualche tempo a questa parte sembra che la vecchia "partnership" Due Sicilie-Russia, si stia rinverdendo.
Dal 13 giugno un volo diretto per Mosca[2] sarà inaugurato dall'aeroporto calabrese di Lamezia Terme, con frequenza settimanale.Il volo viene operato dalla compagnia ''Gazprom Avia'' che utilizza i propri Boeing 737 da 140 posti (classe business ed economy) e collabora con MC Travel, uno dei maggiori tour operators russi.

Come è noto la GAZPROM AVIA, è la compagnia aerea del gigante energetico russo, la società che sta puntando sulle regioni meridionali per la costituzione dell'ormai noto "HUB DEL GAS DEL SUD ITALIA".Probabilmente i russi vogliono aprire più canali possibili con le Due Sicilie, ma nonè solo il gas l'obiettivo dei russi, il fatto che i tour operator russi siano intenzionati a spostare qui le loro rotte ce lo confermano anche i dati statistici[3] sul turismo della città di Taormina, infatti sembra che nel 2007 i turisti provenienti dalla Ex Urss, abbiano superato i giapponesi per quantità di denaro spesa nella città taurina.

Ma il primo ad aver creduto nelle potenzialità del mercato russo è stato proprio un siciliano: Antonino Pulvirenti, presidente della compagnia aerea WINDJET, che offre ben 3 destinazioni russe dalla Sicilia: Mosca, S.Pietroburgo e Samara[4].

E per finire in bellezza, i russi ci stanno provando anche con il calcio, chi si ricorda della proposta che il presidente di Gazprom inviò ai Matarrese per l'acquisto del Bari Calcio?
D'altronde San Nicola, le cui sacre reliquie si trovano a Bari, è anche il Patrono di tutte le Russie..


[1] Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa
[2] Agenzia AGI, 13/05/2008
[3] La Repubblica, 19/05/2008
[4] Fonte Windjet

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giovedì 22 maggio 2008

La bandiera borbonica alla testa del "Corteo Barocco" di Noto.


Ritorna alla grande il famoso "Corteo Barocco" a Noto, dopo due anni di inattività gli organizzatori hanno dato il meglio di se in questa manifestazione, che rimane una delle più belle della Sicilia.

Dopo la scopertura dalla lapide dedicatata a Ferdinando II e l'intitolazione di un viale al sovrano borbonico, che abbiamo preannunciato nel nostre editoriale "Scopertura di una lapide il 10 maggio 2008 a Calabernardo", prosegue la costante opera di rivalutazione storica e culturale che la città netina sta portando avanti da tempo. Ed i primi frutti si notano proprio nel successo di pubblico e nella buona riuscita dell'evento.

Il particolare evento che è stato rievocato dall’ associazione “Corteo Barocco” di Noto, riguarda un episodio avvenuto nel 1746, cioe la nomina da parte di Re Carlo III di Borbone, a Questor Criminum di un nobile netino, il B.ne Jacopo Nicolaci, durante al fastosa cerimonia il gruppo di soldati, all’atto del giuramento di fedeltà ha scandito più volte “VIVA ‘O RE” tra gli applausi della folla.

Al grido di "Viva 'o Rrè" la folla applaudisce.



Bandiera del Regno delle Due Sicilie con lo sfondo la bellissima Cattedrale di Noto.


Ringraziamo Vincenzo Belfiore da Noto per le foto e per la collaborazione.



Ma la Sicilia, la cui cultura è stata sdradicata, da dove può ripartire se non da se stessa, quindi riscoprendosi e riscoprendo quei fasti non tanto lontani, del Regno delle Due Sicilie?

E' inutile inventarsi una cultura che non esiste, importarla da fuori o imporla, perchè la nostra cultura è la nostra tradizione.

La nostra tradizione è quella che vedete nel video seguente.


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giovedì 15 maggio 2008

Col. Ferdinando Beneventano del Bosco: eroe siciliano nell' esercito borbonico.

Palermo 3.3.1813 - Napoli 8.1.1881

Un soldato pronto a battersi con grande coraggio e abnegazione, forte del suo spirito di lealtà e sorretto dal giuramento prestato al suo re. Quest'uomo era il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Il coraggio e

lo spirito di ardimento del colonnello Bosco fu riconosciuto anche dai memorialisti garibaldini e dallo stesso Cesare Abba, cronista partigiano dell'impresa dei Mille.

L'eroe borbonico che i testi di storia sul Risorgimento in Sicilia hanno ignorato o volutamente emarginato in qualche piccola nota di appendice, era nato a Palermo il 3 marzo del 1813 da Aloisio Beneventano dei baroni del Bosco e da Marianna Roscio. Apparteneva ad una nobile ed antica famiglia siracusana;il padre era un alto funzionario della Corte di Napoli, regnando Ferdinando I re delle Due Sicilie. Il piccolo Ferdinando, di appena otto anni, nel 1821 entrò a far parte della Corte Napoletana in qualità di paggio del sovrano. Nel 1825, il re lo fece entrare nel prestigioso collegio militare della Nunziatella, dal quale uscivano i migliori quadri ufficiali dell'esercito borbonico. Nella scuola militare Ferdinando Beneventano del Bosco si distinse subito per le grandi capacità militari e per il carattere particolarmente orgoglioso; uscì dalla Nunziatella con il grado di 2° tenente e fu assegnato al 2° reggimento granatieri della Guardia Reale. Undici anni dopo era 1° tenente al 2° reggimento Regina, ma nel 1845 la sua natura orgogliosa e collerica che non sopportava ingiustizie ed iniquità, lo portò a un duello all'arma bianca con un alfiere dello stesso reggimento, un tale Francesco Vassallo, che fu gravemente ferito; questo episodio gli costò la cancellazione dai ruoli militari. Ma tre anni dopo il re, riconoscendo le sue buone ragioni, lo perdonò e lo riammise in servizio, con il grado di capitano al comando di una compagnia del 3° Principe. Fu assegnato alla brigata comandata dal generale Nunziante ed inviato in Calabria per combattere i rivoltosi in quella regione. La sua natura orgogliosa ed estroversa lo portò spesso ad un conflitto con i suoi superiori, con il generale Nunziante in particolare, poiché aveva l'abitudine di relazionare direttamente con i membri della Corte Napoletana, scavalcando le regole militari e pronunciando giudizi poco lusinghieri nei confronti del generale Nunziante, che in realtà era un pessimo ufficiale. Di rimando il Nunziante non lo citò nella sua relazione sugli ufficiali che si erano distinti particolarmente nella missione in Calabria. Nel settembre del 1849 fu inviato a Messina con la sua compagnia e con grande valore guidò i suoi soldati all'assalto alla baionetta contro una batteria nemica che venne eliminata; durante questa azione un proiettile lo ferì al braccio: nonostante ciò Bosco continuò imperterrito a combattere, incurante della ferita e del sangue che perdeva abbondantemente. Nell'aprile del 1850, alla presa di Catania, al comando di tre compagnie, espugnò un caposaldo nemico molto importante, destando l'ammirazione del generale Filangieri, che lo propose per la promozione a maggiore e per le decorazioni di San Giorgio e San Ferdinando. Non ebbe la promozione per l'ostilità dell'alta burocrazia militare, alla quale egli non risparmiava critiche feroci; ma il re dovette concedergli le decorazioni che gli spettavano di diritto. Nel 1859, essendo Presidente del Consiglio il generale Filangieri, gli arrivò la promozione a maggiore, patrocinata e sostenuta dallo stesso Filangieri, che non aveva dimenticato l'eroico comportamento del suo ufficiale durante la campagna di Catania. Preposto al comando del 9° battaglione cacciatori, l'anno dopo fu promosso tenente colonnello, esattamente 10 giorni prima dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Detestato dai suoi superiori felloni ed intriganti, Ferdinando Beneventano del Bosco fu sempre amato dai suoi soldati, che lo seguivano con cieca fiducia e vedevano in lui il comandante più devoto e leale alla dinastia ed alla causa nazionale. Ritroviamo in Sicilia il colonnello Bosco al comando del 9° cacciatori, agli ordini del generale svizzero Von Mechel, nel momento più critico per l'impresa garibaldina, quando dopo la battaglia di Calatafimi, che battaglia non fu, in quanto le truppe borboniche del generale Landi si ritirarono senza combattere, e dopo la rotta di Parco, Garibaldi si ritrovò alla Piana dei Greci abbandonato dalle squadre siciliane, con i suoi volontari già stremati e dispersi dagli attacchi a sorpresa delle truppe reali e con una colonna militare alle spalle che si batteva valorosamente.

Quella colonna era il 9° cacciatori, comandato da Ferdinando Beneventano del Bosco.

La mattina del 25 maggio "l'eroe" si ritrovò al trivio della Ficuzza con una strada che allora scendeva a Palermo passando per Marineo e Misilmeri. Prima di iniziare la discesa verso Palermo, Garibaldi, completamente sfiduciato, confidò ai suoi più stretti collaboratori: Turr, Sirtori, Orsini e Crispi, che non se la sentiva di marciare su Palermo, in quelle precarie condizioni, preferendo rifugiarsi sui monti in attesa di un sollevamento generale dell'isola, a favore della rivoluzione, o nel caso negativo, avere il tempo e il modo di abbandonare la Sicilia, rimettersi in mare e raggiungere il continente.

Questo proposito venne fortemente osteggiato da Turr, mentre pare che Crispi fosse a favore della tesi di Garibaldi (Storia della 15° divisione Turr di Carlo Pecorini Manzoni). Si decise allora di prendere la via per Palermo poiché in caso di insuccesso i garibaldini avrebbero trovato rifugio sulle navi inglesi e sarde alla fonda nel porto di Palermo. Per ingannare la truppa borbonica che lo perseguitava, Garibaldi ordinò ad Orsini (Vincenzo Orsini, ufficiale di artiglieria dell'esercito borbonico, disertore nel 1848) di proseguire per i monti con qualche pezzo di artiglieria, un piccolo distaccamento di volontari e pochi residui di mafiosi siciliani che, in gran numero, si erano dispersi dopo la rotta di Parco. Quando la colonna di Von Mechel giunse al trivio della Ficuzza, il generale borbonico seppe che Garibaldi era disceso per Palermo e che Orsini con i suoi cannoni aveva preso la via dei monti. Mechel dispose che il generale Colonna, con la sua brigata, si attendesse alle porte di Palermo per aspettare Garibaldi, mentre lui avrebbe inseguito Orsini sui monti per catturargli i cannoni e disperdere le residue bande di mafiosi che avrebbero potuto rappresentare un pericolo se lasciati alle spalle. Con il suo grande intuito militare intervenne il colonnello Beneventano del Bosco, che fece rilevare l'opportunità di abbandonare Orsini al suo destino, preferendo la soluzione di attaccare Garibaldi alle spalle. Se il parere di Bosco fosse stato ascoltato da Von Mechel, i garibaldini avrebbero trovato la brigata di Colonna di fronte e quella di Mechel alle spalle e sarebbero stati stritolati.

Garibaldi avrebbe subito una disfatta tale da compromettere definitivamente l'impresa. L'opinione di Bosco, in quel frangente, fu condivisa da un altro coraggioso ufficiale, il capitano di Stato Maggiore Luvarà. Purtroppo, Von Mechel da svizzero testardo fu irremovibile, per cui la tanto temeraria azione di Garibaldi su Palermo è stata sempre osannata dagli storici piemontesi che hanno favoleggiato sull'ardimento ed il coraggio dell'eroe. Delle perplessità e del timore di Garibaldi tace anche Cesare Abba, il cronista più devoto all'eroe. Se Von Mechel avesse affidato la truppa al colonnello Beneventano del Bosco, come suggerito da più parti, la fortuna del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata assicurata e la dinastia salva.

Si dice che la storia non si fa né con i "se" né con i "ma"; pur tuttavia una considerazione è necessaria: Garibaldi non fu quel condottiero leggendario ed invincibile che la storia ci ha tramandato! La presa di Palermo fu favorita a dismisura anche dalla inesplicabile condotta del generale Lanza, Luogotenente del Regno, che già trescava con la borghesia liberale palermitana alla quale aveva promesso segretamente il suo appoggio. Lanza spiccava, infatti, come una meteora, nella rosa dei generali borbonici inetti, infingardi e traditori. La truppa che difendeva Palermo era divisa nelle piazze dei Quattroventi, Castellammare, Finanze e Palazzo Reale, senza contare i battaglioni di Monreale e le brigate di Von Mechel e Colonna.

Una forza più che sufficiente a battere non solo le orde garibaldine, ma capace di sconfiggere ed annullare un esercito regolare bene armato. La sera del 26 maggio, Lanza fu avvisato dell'arrivo di Garibaldi da Porta Termini ed invece di spingere i battaglioni accampati attorno al palazzo reale, contro il nemico, li tenne fermi ed oziosi nella piazza, ordinando al generale Colonna appena giunto a Villabate, punto strategico per difendere la città dalla parte Sud, di lasciare quella posizione e ritirarsi nella piazza di Palazzo Reale. Il piano del generalissimo Lanza, atto a favorire Garibaldi e la rivoluzione, si rivelò chiarissimo! Fare bombardare Palermo dal forte di Castellammare, comandato da un altro ignobile traditore: il colonnello Briganti (nel nome e nella sostanza). Bombardare una ricca e popolosa città come Palermo, culla di grande civiltà, splendida capitale di un regno fra i più antichi d'Europa, non serviva assolutamente a nulla a scopo militare, quando si avevano i mezzi per impedire la rivolta popolare e per contrastare efficacemente Garibaldi ed i suoi; quindi il disegno del maresciallo poteva sembrare l'iniziativa di un pazzo e di uno scellerato; ma Lanza non era né pazzo né scellerato, anzi era un uomo molto previdente e provveduto; infatti, appena giunto a Palermo con il delicato compito di contrastare l'invasione garibaldina, si era preoccupato non di organizzare le truppe in maniera efficiente, ma di incassare a titolo personale seicentomila ducati dal Banco di Sicilia; somma di cui si persero le tracce nella piega drammatica di quegli avvenimenti.

Il bombardamento di Palermo, nei disegni scellerati del Lanza, aveva lo scopo di far odiare dai Siciliani il mite e onesto Francesco II, portando acqua, dunque, alla causa piemontese.

Quando l'ultimo sovrano delle Due Sicilie seppe del disumano comportamento del suo Luogotenente Generale ebbe a patirne molto, fu profondamente addolorato per le sofferenze ingiustamente provocate al popolo di Palermo; in quel frangente avrebbe dovuto, come gli consigliava la moglie Maria Sofia, fare arrestare il Lanza e processarlo dinanzi ad una corte marziale con una sentenza di morte per alto tradimento. Ma re Franceschiello, come ironicamente lo definivano i Piemontesi, era un uomo di una dirittura morale senza pari, sorretto da una pietà cristiana assolutamente inimmaginabile in quei tristi tempi.

La sera del 26 maggio, Lanza preparò la facile entrata di Garibaldi per la mattina del 27. Invece di rinforzare Porta Termini, varco obbligato per penetrare in città, il generale traditore richiamò la metà della truppa che si era attestata in quel luogo; lasciò al comando del generale Bartolo Marra 260 reclute del 2° cacciatori e 59 soldati del 9° di linea - 319 soldati in tutto, su una forza che contava, in quel momento, 24000 uomini. Dopo questo mirabile ordine se ne andò tranquillamente a dormire a Palazzo Reale. Quando gli annunziarono che i garibaldini erano penetrati in città, si alzò sonnolento dal letto in cui aveva dormito saporitamente e su insistenza della truppa e degli ufficiali che reclamavano a gran voce un intervento immediato, si limitò ad inviare un solo battaglione, il 1° di linea al comando del valoroso Gioacchino Auriemma, con soli quattro cannoni comandati da un altro traditore, il capitano Ludovico De Sauget, che si limitò a tirare alcune cannonate laddove non si trovavano i garibaldini (il De Sauget poi disertò e passò al nemico)! Il generale Bartolo Marra, che aveva il comando di quei pochi avamposti, chiese a Lanza rinforzi urgenti per fronteggiare il nemico; rinforzi che non giunsero mai poiché il generale Landi, l'eroe di Calatafimi, con in tasca ancora i trenta denari del suo tradimento, si attestò con i suoi uomini ai Quattro Cantoni, ma non appena scorti i garibaldini, ordinò alla truppa la ritirata senza sparare un colpo. Quando la via di Porta Termini fu sgombra di ogni pericolo, l'eroe dei Due Mondi, montato sulla cavalla Marsala, entrò trionfalmente da quella Porta. Il 29 maggio la brigata comandata da Von Mechel di cui faceva parte il 9° cacciatori del colonnello Bosco, si era affacciata da Castellammare in direzione di Palermo. Il Lanza, avendo intuito che la presenza in città di Von Mechel e soprattutto del colonnello Bosco avrebbe potuto guastare i suoi disegni di sporco traditore, si affrettò a chiedere un armistizio a Garibaldi.
L'eroe finse di farsi pregare, ma alla fine non aspettando altro che una boccata di respiro, si degnò di accettare la tregua, che fu fissata per la stessa sera del 29. La mattina del 30, Mechel, che non sapeva nulla della tregua, attaccò il nemico al ponte delle Teste e penetrò con le sue truppe sulla strada per Porta Termini, ingombra di barricate, innalzate in fretta e furia dalle camicie rosse, che avevano spogliato i palazzi nobiliari di mobili pregiati, materassi e suppellettili varie. Le barricate furono distrutte a cannonate e i garibaldini si ritirarono in precipitosa e poco onorevole fuga, riducendosi in disordine alla piazza della Fieravecchia.

Nel momento in cui la vittoria arrideva alle armi borboniche, arrivò al galoppo il capitano Domenico Nicoletti, addetto al comando generale, che gridò ai soldati: "Per ordine di S.E. il Luogotenente del Re, il generale Lanza, rimanete qui, poiché la rivoluzione è battuta e sottomessa; evitiamo gli orrori di una città presa d'assalto: in breve entrerete nel resto di Palermo, ma per ora rimanete qui. Signori uffiziali, impedite ai soldati che si avanzino più oltre. " (G. Buttà - Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta - pag. 56).

Subito dopo Nicoletti, smontato da cavallo, parlò con Mechel: "Ho detto ai soldati che la rivoluzione è sottomessa, ma a voi debbo comunicare gli ordini di S.E.: il Luogotenente del Re ha conchiuso un armistizio con Garibaldi, sarebbe slealtà militare continuare le ostilità. Date quindi ordine alla truppa, che si trova alla Flora, di cessare il fuoco e di ritirarsi. " (G. Buttà, ibidem).

Il coraggioso e leale generale Mechel rimase allibito a quella notizia; si vedeva sfuggire di mano una vittoria ormai certa. In quel frangente si rivelò anche la natura collerica e orgogliosa di Ferdinando Beneventano del Bosco, che cominciò ad eruttare fuoco e fiamme contro il Lanza, il Briganti, e tutti gli altri traditori della causa borbonica. Dovette intervenire d'autorità Von Mechel per rabbonirlo, ma inutilmente. Anche Guglielmo Rustow, cronista garibaldino, ebbe a definire la condotta del Lanza "una colossale stupidità". Evidentemente il Rustow non aveva capito o finto di non capire che si trattava di alto tradimento.

Garibaldi, nel frattempo, bivaccava tranquillamente nelle stanze di Palazzo Pretorio. E fu così che 24mila uomini, bene armati e bene addestrati, perdettero la città di Palermo.

Cesare Abba, descrivendo questo episodio, ebbe a dire: "Laggiù in fondo alla via, in mezzo a quelle facce torve di stranieri, si vedeva il colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s'egli avesse potuto giungere mezz'ora prima! Entrava difilato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre. Chi sa che fortuna sfuggiva di mano a questo Siciliano, giovane, ardito, e ricco di ingegno?" (Cesare Abba - Da Quarto al Volturno - pag. 69).

Il valore ed il coraggio di Bosco si rivelarono in seguito, appieno, nella difesa della piazza di Milazzo. Dopo i fatti drammatici di Palermo, Garibaldi puntò verso Messina e attestò le sue truppe dalla parte di Barcellona per sferrare il suo attacco alla piazzaforte di Messina, punto strategico importante per potere attraversare

lo Stretto e penetrare nel Continente. Ma a difesa di Messina stava la piazza di Milazzo con il suo forte ben munito; il generale Clary, comandante della piazza di Messina, ricevette l'ordine di difendere Milazzo con tutti i mezzi, per tagliare la strada verso lo Stretto ai garibaldini; per la difesa di Milazzo scelse l'uomo giusto, il più amato dai soldati, il più devoto e leale servitore dello Stato: il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Ma le forze assegnate al prode ufficiale siracusano erano poche ed insufficienti e scarso anche l'armamento. Bosco disponeva di due battaglioni: il 1° e il 9°, composti di 800 uomini ciascuno, di quattro compagnie dell'8°, di una batteria con otto obici da dodici centimetri, uno squadrone di cacciatori a cavallo e un distaccamento di 40 pionieri; in tutto poco meno di duemilaseicento uomini. In Messina erano di stanza 24000 uomini in attesa di ordini. Bosco chiese al generale Clary di poter contare almeno sulla metà di quella truppa per poter sferrare un attacco a sorpresa contro il nemico attestato a Barcellona.

Egli sapeva, infatti, che nella piazza di Barcellona erano notevoli forze rivoluzionarie, fra cui quattromila soldati piemontesi, vestiti alla garibaldina.

Ma Clary fece sapere a Bosco che la sua funzione era quella di difendere Milazzo e non di attaccare. Così il colonnello Bosco fu costretto alla semplice difesa, in modo che potesse essere battuto da Garibaldi, con il preciso scopo di offuscare il prestigio che il leale ufficiale si era acquistato nell'esercito ed agli occhi stessi del re. Era un personaggio scomodo per una banda criminale di traditori e doveva essere emarginato!

La mattina del 20 luglio avanzarono verso Milazzo i battaglioni piemontesi con la camicia rossa e numerose bande di mafiosi e avventurieri siciliani. Nel porto era ormeggiata la fregata napoletana Veloce, il cui comandante Amilcare Anguissola, di nobile famiglia borbonica, aveva disertato consegnando a Palermo la nave a Garibaldi, dalla quale sbarcavano di continuo uomini e munizioni nel porto di Milazzo. Alcuni battaglioni garibaldini erano comandati dal generale Medici, il quale seguendo il costume di Garibaldi tentò di sottrarsi alla battaglia, invitando il colonnello Bosco ad un incontro per definire un eventuale patteggiamento di resa; ma Bosco rispose all'emissario del Medici che "i soldati del Re non patteggiano con i nemici ma li combattono". Dopo questa fiera risposta, Bosco divise l'artiglieria in quattro sezioni, si lasciò alle spalle una piccola riserva di protezione al comando del tenente colonnello Marra ed uscì fuori Milazzo alla testa di non più di mille uomini. Malgrado l'esiguità delle sue forze contro la preponderanza garibaldina, Bosco si lanciò all'attacco con le sue truppe. Montato sopra il suo cavallo preferitò Alì, roteando la sciabola, si gettò contro le schiere nemiche incitando a gran voce i soldati, che lo seguirono con un coraggio ed un entusiasmo senza pari; mentre l'artiglieria apriva il fuoco di fianco, seminando morte nelle file dei garibaldini. L'attacco di Bosco fu così impetuoso e forte da rompere l'ala centrale del nemico, che fu gettata indietro rovinosamente.

Il generale Medici, sorpreso e sgomento dall'impeto dei Napoletani, fu costretto a chiamare in soccorso la riserva di Cosenz, ufficiale borbonico disertore del 1848, che assaltò con i battaglioni piemontesi i suoi connazionali ed antichi compagni d'armi. Accanto a Bosco si batteva con coraggio anche il capitano Giuliano, che colpito da una palla al petto, cadde ucciso; si disse dai cronisti piemontesi che era stato ucciso dallo stesso Garibaldi, mentre in realtà "l'eroe" seguiva la battaglia da bordo della fregata Veloce, più comoda e sicura in quel terribile frangente.

I soldati di Bosco tennero testa ad un nemico dieci volte più numeroso, per otto ore senza alcuna interruzione; quando il colonnello si accorse che sopraggiungevano truppe fresche, pronte ad aggirarlo alle spalle, fece stringere la linea di battaglia e sempre combattendo riuscì a condurre i suoi soldati nel forte di Milazzo. Garibaldi, che aveva seguito la battaglia a bordo della Veloce, vedendo la ritirata, ordinò molto eroicamente, che i cannoni della fregata aprissero il fuoco sui regi che si ritiravano, ma dal forte partirono più colpi di cannoni a palla, che obbligarono la nave ad allontanarsi dal porto.

Le perdite napole-tane furono di tre ufficiali, 38 soldati, e 83 feriti; mentre i garibaldini perdettero millecinquecento uomini; Agostino Bertani, in un proclama ai volontari, enfatizzò sui mille caduti a Milazzo e Garibaldi stesso confessò al comandante della fregata francese Protis che nella battaglia di Milazzo aveva perduto ottocento fra gli uomini migliori.

Chiuso nel forte, Bosco chiese subito rinforzi al generale Clary, che non giunsero mai, per cui il valoroso colonnello si preparò alla difesa: una difesa disperata poiché mancavano le munizioni, i viveri e anche l'acqua. Il 22 luglio, Garibaldi inviò un messaggio a Bosco, intimandogli di arrendersi con tutta la guarnigione, altrimenti avrebbe fatto passare al fil di spada tutti gli assediati. In questa occasione Garibaldi mostrò il suo vero volto di mercenario senza scrupoli, di avventuriero ben lontano da ogni etica militare, di condottiero degno delle invasioni barbariche medievali. Bosco rispose che avrebbe ceduto la Piazza solo per ordine del re, o avrebbe combattuto fino alla fine, minacciando di far saltare in aria il forte e tutta Milazzo.

La mattina del 23 giunse a Milazzo un telegramma dal seguente tenore: "Il maresciallo Clary al comandante la piazza di Milazzo. Questa mattina arriverà costà, un Ministro Plenipotenziario del Re, con quattro fregate napoletane e tre vapori per trattare la vostra resa". Sul tardi arrivò il colonnello di Stato Maggiore Anzani con tre fregate e stipulò con Garibaldi una breve capitolazione, con la quale si stabiliva che: tutta la truppa uscisse dal forte in assetto di guerra per ricevere gli onori militari e fosse imbarcata sulle fregate per essere trasportata in Continente. Clary mandò l'Anzani perché sapeva che Bosco non avrebbe mai accettato di cedere il forte e la piazza di Milazzo a Garibaldi. L'eroe stesso aveva telegrafato ai suoi amici di Napoli, affinché facessero pressioni sul re, perché mandasse un alto ufficiale napoletano a trattare la resa. Quando la truppa uscì dal forte, Garibaldi dimostrò tutta la sua meschina natura di avventuriero prezzolato; per bassa e miserabile vendetta nei confronti di un uomo che gli aveva tenuto testa con onore e fierezza, confiscò i due cavalli di Bosco, mentre lasciò agli altri ufficiali quelli che avevano.

Ferdinando Beneventano del Bosco, così, uscì dal forte a piedi, alla testa delle sue valorose truppe. Rientrato a Napoli ebbe dalle stesse mani di Francesco II il decreto di promozione a generale di brigata, il 17 agosto del 1860.

fonte: http://www.editorialeagora.it


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mercoledì 14 maggio 2008

Disse Aldo Moro: "Più passa il tempo e più ammiro i Borboni"



Il presidente autonomista Silvio Milazzo, fuoriuscito dalla DC di Moro.
E' quanto confidò[1] il politico ucciso dalle BR, al collega Graziano Verzotto, padovano democristiano ottantacinquenne, ma inossidabile dal punto di vista politico.Viene appositamente spedito in Sicilia per stroncare il "Milazzismo" ovvero la deriva un pò troppo autonomistica(per lorsignori) presa dalla Sicilia degli anni 50 e che tanto fastidio diede ai poteri forti italici.

Fu proprio il Verzotto a far implodere il progetto della giunta di Silvio Milazzo, orchestrando il famoso caso di finta corruzione nei confronti dell'Onorevole Santalco, congiura che prese il nome di "beffa delle Palme”[2].

Una volta riuscito nell'intento, l'onorevole Verzotto ricevette persino i complimenti dal boss Lucky Luciano in persona, è quanto scrive, candidamente, sul suo libro autobiografato "Dal Veneto alla Sicilia".

Se ci sono ancora dubbi su chi rappresenti la vera "Cupola" in Italia, adesso non ne avrà più.

Ma perchè quella frase "Più passa il tempo e più ammiro i Borboni" pronunciata da Aldo Moro?Si riferiva probabilmente al fatto che nel periodo milazzista la Sicilia era divenuta difficile da governare(leggasi controllare) a causa delle spinte autonomiste e quindi ammirava i Borbone perchè erano gli unici che erano riusciti ad amministrare la nostra Isola.

Il paragone è un pò infelice, perchè i signori dell'ENI e tutta la mafia industriale padana avrebbero voluto eliminarla completamente questa autonomia, col fine di accaparrarsi le risorse isolane, soprattutto quelle petrolifere.Cosa che puntualmente si verificò.Durante il Regno delle Due Sicilie, invece la Sicilia godeva di un'autonomia impensabile per oggi, che le garantiva persino una propria moneta[3], oggi desiderio inconfessabile per molti autonomisti.

Bei tempi quelli degli anni 50, quando non tutti i nostri politici erano asserviti ai poteri forti del nord; fu proprio in quel periodo che furono creati enti come SICINDUSTRIA(una sorta di confindustria siciliana) SOFIS(società finanziaria siciliana) ed EMS, progettati per favorire lo sviluppo della grande industria isolana.

L'Ente Minerario Siciliano aveva progettato la costruzione del primo gasdotto Sicilia-Algeria, ben conscio delle potenzialità strategiche della Sicilia nello scacchiere Mediterraneo.A capo di questo progetto era stato messo sempre Verzotto, forte della sconfitta dell'autonomismo, ma non aveva fatto i conti con gli americani, che avevano tolto di mezzo il suo vecchio capo, Enrico Mattei, ed i famosi accordi "fifty-fifty"[4].Fu poi l'ENI a portare avanti il progetto, ma l'ENI post-Mattei era diversa, completamente asservita alla massoneria petrolifera anglo-americana.

Nel corso della documentazione per la stesura di questo articolo, abbiamo notato diverse analogie tra Silvio Milazzo e Raffaele Lombardo.Entrambi catanesi e militanti della DC, poi dimessi, hanno fondato un partito ispirato ai principi dell'Autonomia.Sono stati eletti presidenti della Regione Siciliana e tutti e due furono attaccati dai poteri forti italici.

[1] Il Corriere, 13 maggio 2008

[2] Il fatto si svolse a Palermo all'Hotel delle Palme, con la complicità della polizia che aveva preventivamente piazzato delle microspie.

[3] Durante il periodo borbonico i "ducati" avevano corso legale nel sud continentale, mentre le "once" nel sud insulare, ovvero in Sicilia

[4] L'ENI di Mattei faceva una concorrenza spietata alle altre compagnie petrolifere concedendo il 50% dei ricavi ai paesi produttori di petrolio.

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mercoledì 7 maggio 2008

Scopertura di una lapide il 10 maggio 2008 a Calabernardo.



Un meritato riconoscimento a Ferdinando II definito dai netini del tempo "Restauratore della Patria".
La giunta municipale, con delibera del 17 aprile, ha accolto la proposta dell'assessore alla cultura del comune di Noto di apporre a Ferdinando II di Borbone una lapide commemorativa nella piazza Stella Maris di contrada Calabernardo, nella facciata del Dott. Salvatore Mortellaro che ha immediatamente aderito alla richiesta di concedere l'autorizzazione.

La motivazione è chiaramente spiegata nel testo della delibera: Ferdinando II fu colui che nel 1837 restituì alla città di Noto il rango di Capovalle che le era stato tolto, dopo 9 secoli, con la riforma del 1817; nel 1844, concedendo al Papa il regio assenso (allora necessario) rese possibile l'erezione della Diocesi di Noto(antica aspirazione dei netini fin dal 1400) donando al nuovo Vescovo mons. Menditto la Regia Abbazia di S. Maria dell'Arco con le sue rendite, al fine di costituire la mensa vescovile.

Negli anni 1837-38 per ben quattro volte il Re e la Regina, con il loro seguito vennero a visitare Noto, sbarcando a Calabernardo (allo scalo di Balata) ed ospitati negli appartamenti detti "reali" all'interno del Palazzo Landolina dei Marchesi di S. Alfano.L'incarico di esecuzione della lapide è stato affidato ad un artigiano locale che la consegnerà a giorni. La cerimonia di scoprimento avverrà sabato 10 maggio.

E' questo, come ha delibarato la giunta municipale di Noto, un doveroso atto di riconoscenza della città di Noto ad un Sovrano che la beneficò più volte e a ben ragione fu definito dai netini del tempo "Restauratore della Patria". A distanza di quasi due secoli dall'unità d'Italia, Noto da un piccolo contributo ad una lettura positiva della storia dei Borboni.

Sarebbe, infatti, scioccco oltre che immensamente ingiusto mantenere su questa pagina di storia l'oblio nel quale finora è stata di fatto relegata.Invito tutti i simpatizzanti dei Comitati a fare sentire la loro voce e per quanto possibile ad essere presenti alla cerimonia.
Corrado Arato
CSS 

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La reazione borbonica ed anti-piemontese in Sicilia e l'ipertassazione del nuovo governo.


La statistica di fine anno 1861, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 fra arrestati e costituitiDovunque erano diffuse la paura, l’odio e la sete di vendetta. L’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione.

Il 1° gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellammare del Golfo al grido[1] di "abbasso la leva, morte ai liberali, viva la repubblica". Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta “Ardita” e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata, ed in pochi giorni si contavano più di 300[2] arrestati nel solo capoluogo.

A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo più parenti dei ricercati, comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove erano prive di luce e di aria.

Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti.

A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando la più grande devastazione economica mai subìta da un popolo.

A Catania vi fu un’insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili.

Il 30 giugno 1862, la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partì da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l’isola dai piemontesi e per ripristinare il governo borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente.

Nell'agosto, in Pantelleria la banda Ribera non riuscì in un tentativo di giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano. L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altra 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente.

A Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere quasi quattrocento isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard, governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l’aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai lavori forzati.

Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un “guardapiazza” (quello che oggi viene chiamato mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di “sconvolgere l’ordine” per poter permettere e giustificare la feroce repressione così da eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L’indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.

L’anno 1862 si chiuse, con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell’anno furono 574. I meridionali emigrati all’estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 “quarti” battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria.
Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici.

Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del “suo” debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni “liberate”.

Le tasse...





Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento[3] di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza “italiana”.

Vari spunti presi da cronologia.leonardo.it


[1] Civiltà Cattolica, anno decimoterzo, vol.I della serie quinta, ROMA, 1862, pag. 366
[2] Civiltà Cattolica, anno decimoterzo, vol.I della serie quinta, ROMA, 1862, pag. 111
[3] Civiltà Cattolica, anno decimoterzo, vol.I della serie quinta, ROMA, 1862, pag. 118

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lunedì 5 maggio 2008

La fame è qui. E adesso?



In Giappone non si trova più il burro nei supermercati[1] e in America è partito il razionamento[2] come ai tempi della guerra, mentre i giornali invitano già a fare le scorte[3] .

"A causa della ridotta disponibilità, siamo costretti a limitare la vendita di riso" è il cartello, che da qualche giorno, gli esigenti consumatori americani, trovano sugli scaffali dei supermercati.Come il più pauroso dei film di fantascienza americani.

Ci conviene riflettere seriamente su quello che potrebbe succedere qui da noi, perchè questa grave crisi alimentare sta dimostrando che nemmeno i paesi più industralizzati possono sentirsi al sicuro, figuriamoci quelli più poveri.

I giornali nostrani evitano di parlarne ampiamente: da un paio di settimane in Messico infuria una rivolta[4] che ha di fatto paralizzato la vita politica della nazione, il parlamento è stato occupato e vari cortei di protesta presiedono permanentemente le piazze delle città più importanti.Il motivo ufficiale di talu subbugli è la volonta del governo di vendere l'azienda energetica di Stato, la Pemex, ma in realtà si tratta della classica goccia che fa traboccare il vaso: i cittadini messicani sono esasperati dall'aumento vertiginoso del prezzo del mais[5], passato dai "7 pesos al chilo ai 18 attuali", che ha ridotto la popolazione alla fame.
Il mais viene utilizzato per fare le "tortillas", il pane messicano.

Per sopperire alla mancanza di cereali, i governi di tutto il mondo stanno ben pensando di tassarne le esportazioni e così che la Russia ha messo un balzello di 70 euro per tonnellata, la Cina uno del 25%, altre forti limitazioni vengono imposte da India, Egitto, Thailandia, mentre il Brasile blocca totalmente le esportazioni[6].

Quale lo scenario probabile in Italia?
Il nostro paese è notoriamente agricolo, ma in realtà le sue potenzialità sono tenute al minimo, in maniera artificiosa.
Se in passato il Sud era un importante produttore di grano, oggi il 50% del grano consumato proviene da Canada e Stati Uniti.
Un'eventuale collasso delle esportazioni nordamericane o una drastica riduzione, avrebbe come conseguenza il raddoppio del prezzo di pasta e pane e la loro scarsità sugli scaffali, come d'altronde sta avvenendo con il riso negli USA.
L'indisponibilità delle granaglie sui mercati, avrebbe come conseguenza, gravi ripercussioni sul settore degli allevamenti; anche in questo caso l'Italia sarebbe fortemente colpita, in quanto la maggiorparte dei bovini da macello viene importata da Gran Bretagna, Olanda e Francia, pur avendo il nostro paese delle grandi risorse, anche in questo settore.
Ci vorranno due-tre anni e forse anche di più, passati però nella ristrettezza dei razionamenti, prima che la produzione nazionale di grano e carne arrivino ad un regime tale da soddisfare la domanda interna. Insomma si prospetta un futuro di autarchia.

In Europa, la colpa di tutto ciò, è come sempre dell'assurda liberalizzazione economica dell'UE, che impone ai paesi membri di rifornirsi sui mercati esteri (una volta più economici) per ciò che riguarda i prodotti dell'agricoltura, ma opprimendo così le nostre aziende.

"Un intervento urgente non solo per fronteggiare l'attuale emergenza alimentare mondiale, ma per cogliere le opportunita' che l'aumento dei prezzi puo' offrire per il rilancio l'agricoltura ed evitare che situazioni drammatiche di questo tipo si riverifichino in futuro" E' l'appello[7] lanciato dal direttore generale della Fao, Jacques Diouf, alla comunita' internazionale, che prospetta una strategia su due fronti: da un lato l'adozione di politiche e programmi per assistere i milioni di affamati, e dall'altro la promozione di misure per aiutare gli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo a trarre vantaggio da questa nuova situazione.

Quello che ha dichiarato il capo della FAO è proprio ciò che noi auspichiamo, ovvero trasformare questa crisi in un'opportunità per le regioni del Sud Italia, ad esempio Sicilia e Puglia, in passato grandi produttrici di granaglie.

La soluzione che oggi proponiamo è la stessa contenuta nel nostro editoriale "Presto un boom dell'agricoltura in Sicilia?" del 8/11/2007 che scrivemmo quando ancora i giornali non si sognavano minimamente una crisi di tale portata, mentre noi già ponevamo le soluzioni.

L'unico modo che abbiamo per superare questa crisi, è investire nel settore e ci sono vari modi per farlo, come la fondazione di aziende agricole, la messa in coltura degli appezzamenti abbandonati, l'aumento della produzione granicola e cerealicola.Senza dimenticare la formazione scolastica relativa al settore agrario, spesso snobbato perchè poco remunerativo.Presto saranno necessari in Sicilia, così come in tutto il Sud continentale, parecchi periti agrari, richiesti dal comparto agricolo in espansione che sarà trainato da un notevole aumento dei prezzi.Insomma con l'agricoltura si tornerà a guadagnare.

E necessario porre tra i gli obiettivi del Paese la formazione di una nuova classe dirigente, capace di affrontare con intelligenza ed onestà i problemi attuali e futuri e portando le proprie competenze laddove si presentino delle opportunità di sviluppo per la nostra terra.

Conscia di questi nuovi sviluppi, gia da un pò di tempo, il nostro segretario provinciale Dr.ssa Daniela Catalano, che è anche il rappresentante degli allevatori della provincia di Enna, ha inaugurato un laboratorio di analisi agroalimentari in Val Dittaino.

Un'investimento mirato per il boom dell'agricoltura che stiamo attendendo.


[1] Il Giornale, 26 aprile 2008

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