lunedì 18 aprile 2011

Capo Peloro prima e dopo il 1860



di Armando Donato
Vicepresidente CSS Sicilia

L’agiografia risorgimentale ha ovviamente condizionato anche la trattazione delle vicende del luglio 1860 a Messina e la breve permanenza di Garibaldi in quel di Capo Peloro. Se a ciò si aggiunge l’esclusione e/o la totale disconoscenza, spesso di natura ideologica, dei periodi storici precedenti e successivi a quell’anno, si viene a creare uno dei tanti enormi e pericolosi vuoti di cui Messina è troppo spesso vittima.

Poiché ai fini della ricerca storica e lo studio approfondito dei reperti, è piuttosto riduttivo, superficiale se non ridicolo ridimensionare la storia di questo importantissimo luogo ai soli fatti del 1860, è bene tenere nella giusta considerazione che esso fu sede di ben più antiche batterie, postazioni, trinceramenti e fortificazioni in genere, protagoniste di numerosi eventi bellici; e continuò ad esserlo sino al secondo conflitto mondiale.
Dunque è bene fare un breve excursus circa i periodi storici che interessarono Capo Peloro, partendo, per non dilungarsi eccessivamente, dalla fine del Seicento.
Nel dicembre 1674 gli Spagnoli, nell’ambito della rivolta messinese, vi effettuarono uno sbarco protetto da 15 galere che bombardarono la torre, poi conquistata con tutti i cannoni. Molteplici in tale contesto i duelli tra le artiglierie navali spagnole e i cannoni della Torre del Faro. Tuttavia il luogo fu a più riprese conquistato e perso, quindi presidiato a fasi alterne da Spagnoli, Francesi e Messinesi. Il Romano Colonna a tal proposito afferma: «e per non lasciar dell’intutto libera la campagna ai messinesi, restati già chiariti, che i francesi non portarono soldatesca bastante a guarnire la città, e guardare quella, fecero nuovo sforzo di fortificarsi nella Torre del Faro, fabbricando ivi un forte con molti cannoni, e formando in quella pianura un campo di un grosso numero di soldati». Altri testi raccontano della costruzione nella punta del Faro «di un fortino ben guarnito con artiglieria e gente armata e stipendiata di sopra».
Nel XVIII le mire delle potenze europee, che a vario titolo e per motivi commerciali puntavano allo smembramento dell’impero spagnolo, portarono a una fase complessa di giochi e intrecci che scaturirono in quella che fu definita la guerra di successione spagnola (1702-1713/14), che si concluderà sostanzialmente col trattato di Utrecht, tramite il quale la Sicilia passerà in mano ai Savoia.
Tale situazione aveva nel frattempo consentito che i pirati inglesi, francesi e olandesi invadessero il Mediterraneo, depredando anche il naviglio vario che passava nello stretto di Messina. Alcune documentazioni infatti segnalano nel 1711 la presenza di quattro galeotte triremi spagnole ben armate, che terrorizzavano le coste calabresi, tanto che il governo di Napoli inviò due nuove galere per pattugliare le coste e scortare i convogli di grano e derrate alimentari provenienti dall’Adriatico attraverso lo stretto.

Interessante anche il periodo circa la guerra della quadruplice alleanza (1717-1720), nel quale la Spagna si contrapponeva a Olanda, Inghilterra, Austria e Francia, per il controllo del Mediterraneo. Nel 1717 la Spagna aveva invaso la Sardegna e nel contempo, insieme all’Austria, era interessata alla Sicilia nonostante Utrecht; infatti il primo luglio 1718 un contingente spagnolo forte di trentamila soldati e protetto da 22 navi, sbarcò a Palermo mentre i sabaudi evacuavano l’isola ritirandosi presso la Cittadella di Messina, che fu posta sotto assedio. Ma l’intervento della flotta inglese dell’ammiraglio Byng, che sbaragliò quella spagnola presso Capo Passero (Siracusa) nell’agosto dello stesso anno, capovolse la situazione. Gl’inizi della battaglia si erano avuti nello stretto di Messina, nella cui porzione nord era ancorata la flotta spagnola, protetta dalle batterie costiere. In seguito truppe austriache e inglesi (sbarcate anche presso la Torre Faro nell’agosto del 1719), avevano affrontato gli Spagnoli, conquistando la Sicilia, e a quelli non fu permesso di lasciare il posto sino alla firma della pace. Lo Smith nel 1814 segnala la presenza nel porto di Messina dei relitti di due navi da guerra spagnole, riuscite a riparare dopo la battaglia di Capo Passero e affondate all’ormeggio dall’ammiraglio Byng durante l’assedio del 1719, mediante una batteria austriaca appositamente armata. Ciò per evitare sia che le navi potessero tornare in patria dopo la fine delle ostilità, sia che nascessero dispute per il possesso delle prede belliche. Si trattava di un vascello da 64 cannoni, varato nel 1716 e di una fregata da 50 cannoni varata nel 1702. Una terza nave da 56 cannoni varata nel 1703 era stata catturata presso il porto di Messina dopo la battaglia di Capo Passero.
Nel 1720 fu siglato il Trattato dell’Aia che pose fine alla guerra: gli Asburgo in cambio della Sicilia rinunciarono alla Sardegna e a qualsiasi pretesa al trono spagnolo, mentre Vittorio Amedeo II di Savoia fu incoronato re di Sardegna. La Sicilia passò dunque nel 1720 agli Austriaci che vi regnarono per 14 anni, allorquando gli Spagnoli, conquistato il Meridione d’Italia, ritornarono sull’isola e nei pressi di Capo Peloro il luogotenente Marsillac sbarcò alla volta di Messina, mentre il nemico austriaco abbandonava il presidio per ritirarsi nella Cittadella.

Quindi, a seguito della nascita del regno borbonico (1734-1861), le aree costiere siciliane furono difese già a partire dalla metà del Settecento, soprattutto a protezione delle scorrerie piratesche che infestavano il Mediterraneo. Infatti in quegli anni l’Amico descrive il villaggio del Faro dotato di una torre con «attaccata una fortezza fornita di artiglierie e custodita da un presidio di soldati sotto un prefetto». Nel 1783 la Torre del Faro era armata e definita dal De Burigny «ben munita e con presidio». Significativo l’episodio accaduto nel 1734, allorquando una tempesta scagliò sulle coste dello stretto tre navi corsare, di cui una sulla spiaggia di Capo Peloro, catturata con tutto l’equipaggio musulmano.
Nel 1799 la protezione antincursiva siciliana fu potenziata con centinaia di artiglierie per la difesa costiera, mentre la Real Marina disponeva di 86 navi varie. In realtà in quell’anno, con tutta la penisola in mano ai Francesi, fu messo in atto un vero e proprio piano difensivo della Sicilia, per cui si provvide a costruire varie barche cannoniere, a far fondere nuove artiglierie, organizzare le difese costiere e gli eserciti. In tale contesto l’area di punta Faro già presidiata da 18 artiglieri litorali nel 1792 e nel 1798 classificata come campo trincerato retto da un tenente colonnello, vide l’anno successivo l’aggiunta nel fortino del Faro di sei cannoni da 36 libbre e quattro mortai da 12 libbre e altre decine di pezzi in tutto il territorio della Piazza. Dal 1803 la Piazza di Messina (brigadiere Guillichini) poneva la sua difesa su varie fortificazioni ancora oggi esistenti, tra cui la Torre del Faro comandata da un colonnello. La Piazza di Milazzo, da considerarsi altro punto strategico, era invece nel 1803 retta da un brigadiere e nel 1807 risultavano armate quattro batterie del fronte a mare.
Con la perdita del regno di Napoli nel 1798 i Borbone si rifugiarono in Sicilia (i quali ritornati a Napoli dopo qualche anno, furono costretti nel 1806 a ripetere la fuga verso Palermo) e insieme agli alleati inglesi contrastarono il nemico franco-napoletano, il quale, disceso verso sud, si era accampato sulla costa calabra tentando di sbarcare sull’isola attraverso lo stretto.


Intensissime quindi le attività delle contrapposte flotte navali e vari gli episodi bellici tra attacchi, incursioni, cannoneggiamenti, terminati solo nel settembre del 1810 con il fallito sbarco delle truppe al comando del Murat sulle coste sud di Messina. Gli sbarchi sarebbero dovuti essere tre, di cui uno programmato a Capo Peloro, ma la reazione delle forze anglosiciliane respinse l’unico sbarco provocando il ritiro delle truppe francesi verso il nord della penisola. Intanto dal 1803 le coste del Regno erano vigilate da un totale di 419 torri litoranee servite da artiglieri litorali; nel 1806 a Messina fu costruito l’arsenale di artiglieria e nel 1808 a Messina e Milazzo (oltre alle truppe inglesi) prestavano servizio circa 500 artiglieri litorali. Il Cockburn cita nel dettaglio le tante batterie di cannoni, mortai e relativi trinceramenti inglesi (i quali posero le loro basi principali a sud, in zona Contesse e San Placido, e a nord presso Faro e Piano dei Campi, ridenominato Campo Inglese), costruiti nel 1810 a Messina su tutta la costa della città, da nord verso sud presso Mortelle, C. Peloro, Torre del Faro, Ganzirri, Fiumara Guardia, Grotte, S. Salvatore dei Greci, Messina, Contesse e Mili. Nel 1812, subito dopo la fine della minaccia francese i presidi erano ancora armati, così come bene evidenzia la mappa del piano delle fortificazioni dello stretto, a cura del Distretto di Messina. Secondo il Purdy nel 1814 in zona erano armate due batterie costiere insieme ad artiglierie nelle torri martello coordinate dal telegrafo di Spuria. Nel 1815 la Torre del Faro era una Piazza di 3^ classe al comando di un ufficiale superiore. Nel 1833 l’organizzazione militare e la classificazione delle Piazze e forti del regno, indicava la Torre del Faro come presidio di quarta classe comandato da un capitano. Inoltre uno scritto del 1834, descrivendo il villaggio di Torre Faro, evidenzia alcune batterie di cannoni poste a difesa della Torre.
Nel 1847 la Torre del Faro era ancora un forte di quarta classe e l’anno successivo l’area in questione era dotata di «un Faro utile al riconoscimento delle navi in ingresso, posto su una torre accompagnata da un fortino quadrato ben armato». Lo stesso anno il parlamento siciliano includeva la Torre del Faro nella Piazza di Messina, dipendente dalla seconda direzione di artiglieria, inserendola tra le Piazze di quarta classe.

Nel 1848 dunque, dopo l’abbandono borbonico dei presidi e il ritiro nelle fortificazioni del porto, furono i rivoluzionari siciliani ad armare, oltre a pezzi minori, quattro cannoni da 24 libbre presso il fortino del Faro, una batteria tra la Torre di Faro e la Torre Mazzone a ovest, e altre quattro batterie tra la Torre del Faro e la Torre di Ganzirri sul versante est: in totale due pezzi da 80 libbre e venti da 24 e 36 libbre (non a caso pezzi dello stesso calibro di quelli armati in loco dai garibaldini nel 1860), che in più occasioni duellarono con le artiglierie della navi borboniche. Lo Scalchi afferma che tra la torre del Faro e Messina furono costruiti dieci fortini, ciascuno armato con quattro pezzi di grossa artiglieria. Il comandante borbonico di Messina, maresciallo Pronio, segnalava nel 1848 che presso la Torre del Faro, in mano ai rivoltosi, vi era una batteria a pelo d’acqua e sei altri pezzi, oltre quelli già esistenti. Secondo i piani le batterie dovevano essere sorvegliate da ben 1000 uomini posti presso il forte di Spuria.. Interessante la documentazione che afferma che nel 1848 il senato di Palermo volesse far innalzare a punta Faro un monumento commemorativo. Nel settembre del 1848, dopo sette mesi di assedio della Cittadella da parte rivoluzionaria, protetto da una squadra navale forte di 286 cannoni che bombardarono le posizioni nemiche, sbarcò a sud di Messina il reggimento Real Marina, un vero e proprio reparto anfibio che consentì l’atterraggio di quattro battaglioni, i quali, insieme ai reparti del maresciallo Pronio usciti con una sortita dalla Cittadella, misero in seria difficoltà l’esercito rivoluzionario provocando l’abbandono progressivo dei presidi siciliani tra cui Capo Peloro con le sue batterie, Milazzo, lasciata alle truppe borboniche ancora munita di 24 cannoni di grosso calibro e 8 da campagna, sino a Palermo nel 1849. Alla fine dei fatti il capo della spedizione, tenente generale Filangeri, aveva preso ai rivoltosi di Messina 21 bandiere nonché tutte le artiglierie (oltre cento) e relativo munizionamento, barche cannoniere, un piroscafo armato e armi varie.

Nel 1852 un ufficiale borbonico ipotizzava la prosecuzione delle batterie inglesi edificate quarant’anni prima sulla costa nord della città, in modo da unire i presidi di difesa marittima di Messina e della Torre del Faro. L’Orsini nello stesso anno descriveva l’ingresso dello stretto «chiuso da un seguito di batterie bene stabilite che si prolungano dalla città sino alla torre fortificata del Faro». Nel 1856 l’area di Capo Peloro era ancora dotata di batterie, mentre vari autori segnalano nel 1860 la presenza di artiglierie presso la torre del Faro.
Nel luglio-agosto 1860 dunque, a seguito del ritiro delle truppe borboniche, l’esercito garibaldino giunse a Messina ponendo a Capo Peloro il campo base e varie batterie di artiglieria in attesa di sbarcare sul continente e proseguire la campagna di unificazione. Esistono a tal proposito non una o due, ma decine tra documentazioni e mappe, che indicano nello specifico la tipologia dei pezzi posizionati e che da sole smentiscono alcune teorie locali.
Nel frattempo i resti dell’esercito borbonico, nonostante il blocco effettivo dei presidi e i tentativi del nemico di farli desistere o passare dalla sua parte, restarono asserragliati nelle posizioni armate della zona falcata sino al 12 e 13 marzo 1861, cedendo solo a seguito degli effetti delle potenti artiglierie piemontesi, che dal febbraio 1861 assediavano le posizioni borboniche, in modo particolare la Cittadella.

Anche dopo l’Unità il luogo in questione rimase presidiato. Infatti già nel 1863 a Torre del Faro vi era un distaccamento di artiglieria, nel 1864 la torre fu classificata opera di prima categoria, nel 1865 si provvide ad armare le batterie dello stretto con artiglierie napoletane, aggiunte a cannoni da 40 libbre rigati e nel 1866 tutta l’area di Capo Peloro fu inserita nel Piano di Difesa dello Stato, seppur con successive dismissioni,attraversando via via tutte le vicende politiche e militari successive. Il luogo rimase significativo anche nel XX secolo, inserito nei vari piani difensivi redatti nel tempo (nel 1910, 1913, 1915 e 1931) e a partire dalla seconda metà degli anni Trenta fu difeso con varie batterie permanenti contraeree, costiere e a doppio compito, alle quali, in modo particolare nel 1942-43, si aggiunsero quelle campali tedesche, mentre la sommità della torre veniva munita di stazione fotoelettrica mobile su binario e il mare era pattugliato da naviglio vario tra cui le vedette antisommergibile. In modo particolare già prima della guerra erano presenti in loco la batteria MS620 della Milmart e una da 75/27 AV ad uso Dicat insieme ad una postazione per aerofono. Dalle mappe inglesi del luglio 1943 risultavano in loco: una batteria contraerea da 90 mm, una doppiocompito da 90 mm e una costiera da 120 mm. L’ultimo periodo bellico attraversato fu dunque quello del secondo conflitto mondiale, nel quale il luogo fu spesso bersagliato dalle incursioni aeree e scelto nel luglio 43 come uno dei punti di imbarco delle truppe tedesche verso la Calabria nell’ambito dell’Op. Lehrgang, ultimata con successo nell’agosto dello stesso anno.

Armando Donato

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"I 150 anni dell'Unità d'Italia" al I Salone del Libro di Messina


Mostra "I 150 anni dell'Unità d'Italia" al I Salone del Libro di Messina - 15 - 17 Aprile 2011, PalaCultura "Antonello da Messina".

L'Associazione Amici del Museo di Messina ha partecipato al prestigioso evento con ben due mostre: "I 150 anni dell'Unità d'Italia" e "La Storia di Messina attraverso i libri di Franz Riccobono".

di Marco Grassi
Messina

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venerdì 15 aprile 2011

Opere Pie borboniche: il Principe di Collereale


Giovanni Capece Minatoli, Principe di Collereale

Appartiene a una delle più antiche e nobili famiglie messinesi di origine napoletana, si avviò alla carriera militare, attingendone con rapidità i più alti gradi. Fu così coinvolto nei moti del 1821, nei quali assunse il comando delle forze borboniche e domò la rivoluzione; si meritò perciò la stima e la riconoscenza anche dei suoi avversari, tra i quali lo stesso G. Rosseroll , capo dei rivoluzionari, da lui sconfitto ma anche aiutato a fuggire.

Di lui ci ha lasciato il seguente ritratto G. La Farina, noto per i suoi sentimenti antiborbonici: ''Bello nella persona, piacevole ed arguto nel conversare, pronto a soccorrere gli infelici e a riprendere i malvagi, odiatore delle ingiustizie, di probità senza macchia, assoluto nei modi, e animoso sino all'audacia''.
Colpito da paralisi e martoriato da acerbi dolori, rammaricatasi pensando a coloro che, travagliati da simili malattie, vivono anche nell'indigenza e sono impossibilitati e procurarsi non solo i farmaci ma persino gli alimenti.

Era questo l'argomento delle sue conversazioni con gli amici che andavano a visitarlo.
Con testamento del 7 luglio 1825 egli perciò costituiva suoi eredi universali gli invalidi poveri, disponendo per essi la fondazione che da lui prende il nome.
Il 20 marzo, giorno della sua morte, venne aperto e pubblicato il suo testamentoolografo, steso due anni prima, nel quale i suoi sentimenti religiosi e filantropici trovarono concreta espressione. Con esso, infatti istituì suoi eredi universali ''li poveri di questa città (Messina) e suoi casali, che sono paralitici, stroppi, zoppi, e che hanno altro male, o vizio nell'organizzazione del corpo per cui non possono lavorare, o procacciarsi il pane, sino a quel numero che soffre il frutto annuale della mia eredità come infra si espressero per alimentarsi e vestirsi ad necessitatem''.

Il 23 gennaio 1828, appena un anno dalla morte del Principe, un vecchio convento rimesso a nuovo e ribattezzato PIO STABILIMENTO DEGLI STORPI aprì le sue porte per accogliere i primi 14 ospiti.

Segnalato da Rino Cascone di Catania
fonte: http://www.collereale.it/fondatore.html

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giovedì 14 aprile 2011

Le insorgenze borboniche a Pantelleria



Il 6 Giugno 1860 una speronara attracca dalle parti di Cuddie Rosse.
Solo un mese è trascorso dallo sbarco di Garibaldi a Marsala. A bordo vi sono tre filo-piemontesi e un tricolore.
Se dobbiamo credere che mille garibaldini conquistarono la Sicilia, possiamo credere egualmente che tre uomini e una bandiera conquistarono l’isola minore.
La verità, in Sicilia come a Pantelleria, è che la popolazione si spaccò in due, tra chi voleva l’annessione al Regno d’Italia e i “legittimisti” delle Due Sicilie.

La resa di Pantelleria venne contrattata con il governatore militare, un certo De Angelis, che accettò senza sparare una schioppettata, e tornandosene a Napoli con i suoi soldati, la costituzione di un Consiglio civico provvisorio alla cui testa venne posto Fortunato Ribera.
Il Ribera era esponente di una delle principali famiglie dell’isola, quest’ultima attraversata, probabilmente al pari di tutte le altre, da una frattura interna tra filo-piemontesi e filo-borbonici.

La frattura sfociò quasi subito in disordini incontrollati dei quali molti panteschi approfittarono per regolare conti personali. La giunta provvisoria resse per un paio di mesi senza riuscire a riportare l’ordine finché, il 17 Agosto, una delle tante schioppettate che rallegravano quei giorni uccise Fortunato Ribera.
Non si saprà mai chi fu a sparare, né se vi furono mandanti.
Tuttavia, il partito filo-piemontese, che trovò un nuovo leader nell’arciprete Giovanni D’Aietti, accusò del delitto i fratelli Michele, Giuseppe, Agostino e Giovanni Ribera, figli di Antonio fratello di Fortunato, e dunque nipoti dell’assassinato, nonché membri del partito filo-borbonico.
Non vi era uno straccio di prova nei confronti dei fratelli Ribera, ma le forze armate piemontesi, che nel frattempo erano sbarcate sull’isola, approfittarono dell’accusa per scatenare la repressione e liquidare la resistenza borbonica.
Così i fratelli Ribera finirono al bando, ma scamparono all’arresto rifugiandosi a Bugeber dove contavano sull’appoggio della popolazione locale e sulla vicinanza delle forre di Gelfiser, impervie e non più frequentate dai tempi delle crociate.
I rastrellamenti dei piemontesi sortirono qualche sparatoria e una sostanziale impotenza.
Nei mesi successivi ai fratelli Ribera si aggiunsero altri filo-borbonici panteschi, sufficienti per tenere sotto scacco le truppe piemontesi, ma non abbastanza per riprendere il controllo dell’isola. Così, i filo-borbonici decisero di espatriare a Malta, dove agiva un “Comitato borbonico” tollerato dagli inglesi e protetto dalla Chiesa (che con giusta lungimiranza vedeva di malocchio i piemontesi).

I filo-borbonici trascorsero a Malta alcuni mesi discutendo sul da farsi.
Tra i fratelli Ribera, che comandavano il gruppo, emersero due posizioni: una, caldeggiata da Michele, che era il maggiore dei fratelli, prevedeva l’espatrio in attesa di tempi migliori; l’altra, sbandierata da Giuseppe, prevedeva la riconquista immediata dell’isola alla causa borbonica.
Prevalse la tesi di Giuseppe e la famiglia si spaccò definitivamente: Michele e alcuni seguaci, rimasero a Malta; di essi si perderanno le tracce.
Il 30 Giugno 1862 i filo-borbonici, capeggiati da Giuseppe Ribera, effettuarono un contro sbarco a Pantelleria.
E’ difficile valutare la consistenza di questo corpo di spedizione armato.
Gli effettivi ammontavano probabilmente ad una ventina di persone, alcune delle quali abbracciarono la causa, non solo per ideali, ma anche per sottrarsi alla coscrizione militare imposta dai piemontesi, che era assai lunga e sconosciuta nel Regno delle Due Sicilie.
A questi occorre sommare numerosi fiancheggiatori, o irregolari, tra i panteschi parenti degli insorti e tra coloro che nel cambio di regime avevano perso qualcosa.
Si aggiunga che, nei due anni precedenti, si erano interrotti i collegamenti navali con il continente, con grave danno per l’economia locale e per la stessa annessione dell’isola al Regno d’Italia.
Insomma, tra le righe delle fonti si intuisce che buona parte della popolazione stava con gli insorti.

Il gruppo dei filo-borbonici spadroneggiò sull’isola per oltre un anno. In quei mesi furono presi di mira i principali membri del partito filo-piemontese, in particolare quelli della famiglia Maccotta.
Le azioni, che mieterono vittime, si svolsero anche in pieno giorno e nel centro del paese, dove gli insorti si spinsero al punto da affiggere bandi e ordinanze. Scampò, invece, ad un serio attentato Luigi Maccotta, che nelle vesti di sindaco, protetto dalle truppe savoiarde, capeggiava allora il partito filo-piemontese. Pantelleria era nel caos, divisa tra un capoluogo in mano ai filo-piemontesi e il resto dell’isola controllato dai filo-borbonici che, al pari di quelli che ormai controllavano ampie zone dell’Italia meridionale, si iniziava a definire“briganti”.
I piemontesi, tuttavia padroni dei gangli vitali dell’ex Regno delle Due Sicilie, reagirono e il 15 Agosto 1863 promulgarono la legge Pica che completava il decreto di stato d’assedio delle province meridionali (considerate “infette”) dell’anno prima.

La legge Pica definiva “brigante” chiunque fosse sorpreso armato in un gruppo di tre persone altrettanto armate.
I processi, demandati alla corte marziale, prevedevano pene severissime che andavano dai lavori forzati a vita, alla fucilazione o impiccagione. Nei processi, che non contemplavano appello, prevalse sempre la seconda ipotesi.
Nel caso di Pantelleria il governo usò il pugno duro.

Tramite il generale Govone, che con la libertà di fucilare a piacimento si occupava di reprimere la resistenza in Sicilia, i savoiardi spedirono a risolvere la questione il colonnello Eberhard, già avvezzo alle questioni di brigantaggio, con 500 militari piemontesi.
Eberhard, il cui nome ricorda una nota marca di orologi, affrontò la questione con puntiglio svizzero ma, inizialmente, con scarsi risultati. L’isola venne battuta palmo a palmo alla ricerca degli insorti, senza trovarli; questi, dal canto loro, continuavano le loro azioni di rappresaglia.
Eberhard, allora, istituì uno stato marziale che finì per rendere impossibile la vita ai panteschi: domicilio nel capoluogo, coprifuoco, controllo sugli spostamenti e soprattutto un pesante carico fiscale per mantenere le truppe di occupazione.
A cedere (forse per denaro) fu un pastore, Francesco Greco, che segnalò al colonnello il rifugio dei “briganti”, una grotta di scorrimento lavico profonda una cinquantina di metri, sita in cima alla Montagna Grande sul versante che guarda a Sud-Est.
Le truppe che la sera del 18 Settembre si mossero per porre l’assedio agli insorti, comprendevano 500 piemontesi regolari e 400 panteschi filo-piemontesi.
Gli uomini, divisi in tre squadre, raggiunsero la cima del monte il mattino seguente.
Vi fu una sparatoria tra gli assedianti e i filo-borbonici asserragliati nella grotta e ormai in trappola.
Le trattative di resa furono condotte dal colonnello in persona, che minacciò di affumicare la grotta con vapori di zolfo.
La resa venne ottenuta, sotto promessa di incolumità degli assediati.
Gli insorti furono incatenati e condotti in paese.
Per l’occasione Eberhard inscenò un sinistro corteo trionfale con tamburi rullanti e bandiere. Poi i prigionieri, dapprima rinchiusi nel Barbacane, furono trasferiti alla Colombaia di Trapani.
Da qui Giovanni e Agostino Ribera, ed altri insorti, evasero in modo rocambolesco; furono tutti ripresi, ad eccezione di Giovanni che riuscì a far perdere le sue tracce per sempre.
Alla sbarra della corte marziale si presentarono in quattordici e il 14 Giugno 1867 dieci di essi vennero condannati a morte e quattro ai lavori forzati (di cui tre a vita). La sentenza capitale venne eseguita per tre soli di essi, tra i quali Giuseppe e Agostino Ribera, che furono ghigliottinati il 2 Maggio 1868.
Ignoriamo la sorte degli altri condannati e di quelli che riuscirono a fuggire, ma non dubitiamo che fu poco felice.

2 Maggio 1868 Ci chiediamo, fra molti dubbi, se non sia questa la data in cui Pantelleria venne effettivamente annessa al Regno d’Italia; un regno il cui primo re, Vittorio Emanuele, si ostinerà a farsi chiamare “secondo”, come già nel suo piccolo regno torinese, quasi ad ammonire che l’Italia nasceva quale “cul de sac” del Piemonte. Invero, quel giorno, morirono alcuni panteschi che nessun festeggiamento ricorderà mai, perché si trovarono a combattere dalla parte sbagliata.
Marcella Labruna e Fabrizio Nicoletti.

fonte: http://coen.blogautore.repubblica.it/2011/03/17/lannessione-dei-panteschi/

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