mercoledì 19 ottobre 2011

Il cannone borbonico di Livorno


Il cannone di marina napoletana presso il Palazzo dei Bottini dell’Olio - Livorno
Premesse

In Italia esistono ancora vari esemplari di artiglierie in ghisa di marina napoletana di fine Settecento. Vari sono come già detto in altra occasioni, i luoghi in cui sono osservabili, in modo particolare a Napoli (Castel Sant’Elmo e il Palazzo dell’Ammiragliato) a Procida (belvedere), a Ustica (fortezza), a Messina (lungomare), Palermo (Arsenale di Palermo-Museo del Mare e palazzo dei Normanni presso all’ingresso del Comando Regione Militare Sud dell’Esercito).

Quindi reperti che attestano le capacità belliche di una Marina di tutto rispetto come quella borbonica, tra le poche in grado di poter commissionare artiglierie di tal genere in grandi quantità.
Si premette che il luogo di fusione di un pezzo d’artiglieria non corrispondeva necessariamente alla sua nazionalità, poiché l’importazione da altri Stati era già da tempo piuttosto comune. I maggiori produttori ed esportatori erano l’Inghilterra, che fabbricava o rifondeva artiglierie testandole presso Moorfield, Woolwich, Salisbury, Chelsea e in altri luoghi, e la Svezia, le cui più famose fonderie erano quelle di Julita e Stavsjö, e altre fonderie come quelle di Navekvarn, Ackers, Bram-Ekeby, Fada, Huseby, Svarta, Halleforts, Ehrendal, ognuna delle quali poteva produrre fino a 150 tonnellate di cannoni in ferro all’anno.

Nel 1748 esistevano in Svezia ben 496 diverse fonderie. Il primato svedese in tema di produzione di artiglierie non era casuale, ma dovuto alla presenza di abbondanti depositi di minerali di rame, stagno e ferro, alle foreste da cui trarre carbone e legna, nonché ai numerosi corsi d’acqua per il trasporto dei materiali e la produzione di energia idraulica. La Svezia era infatti il regno che maggiormente soddisfaceva la domanda di artiglierie in Europa.


Luogo di fusione, stemmi, date, marchi e design.

Alla categoria dei cannoni navali succitati, appartiene anche quello conservato presso il Palazzo dei Bottini dell’Olio a Livorno. Premettendo che marchi, date di fusione e monogrammi reali, costituiscono gli indizi basilari per il riconoscimento nell’immediato di un pezzo di artiglieria d’epoca, e così come è avvenuto per gli altri cannoni di uguale fattura, risulta facile l’identificazione del pezzo in questione, per via dello stemma posto tipicamente tra il primo e il secondo rinforzo di culatta.
Lo stemma si compone di una corona reale borbonica con àncora sormontata dall’evidente monogramma “FR”, quindi Ferdinando Rex, ovvero Ferdinando IV di Napoli, re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III, nonché Ferdinando I delle Due Sicilie dal 1816 al 1825.

Sotto lo stemma si nota la data di fusione (1782), riportata anche sull’orecchione sinistro. Le diverse date di fusione riscontrate sui vari pezzi rilevati, si rifanno al progetto (Napoli 1780) di istituire una grande flotta di navi e le successive produzioni dei cannoni in base al varo delle navi. Le artiglierie di questo tipo facevano infatti parte a seconda dei calibri (36, 24, 18, 12 libbre napoletane, ecc), dell’armamento dei vascelli, fregate e corvette.
L’orecchione destro, di cui al momento non si dispone di immagini, dovrebbe riportare il classico marchio di fusione AB, che indica la fonderia svedese Akers Bruk (o Stickebruk). La fusione dei pezzi borbonici di fine Settecento fu non a caso commissionata in Svezia, a causa della scarsa qualità del “ferro del regno”. Infatti dal 1772 nacquero negoziati per la fusione e l’acquisto di artiglierie in Svezia. Di conseguenza partirono varie commissioni di artiglierie in sostituzione di quelle ormai obsolete e decrepite.

Il design del cannone evidenzia una tipologia di artiglieria navale sobria, con forme massicce e poco slanciate per facilitare la manovra sulle navi e quindi dotata di grossi spessori e culatte allo scopo di resistere alle fortissime pressioni esercitate dallo scoppio delle cariche, utili ad assicurare le prestazioni ottimali contro le navi nemiche, la cui progettazione era parecchio migliorata rispetto ai primi anni del secolo.
In conclusione, per poter determinare la potenza del cannone è bene innanzitutto considerare che essa è data dal peso della palla in uso, avente diametro logicamente minore dell’alesaggio, poiché il vento o spazio vuoto è uguale alla differenza tra diametro della palla e diametro della volata. E’ di conseguenza necessario conoscere la libbra in uso al regno borbonico, poiché ogni regno adottava la propria.

Quindi si dovrebbe pesare il pezzo e misurarne la lunghezza totale dal bottone di culatta alla gioia (il bottone risulta quasi del tutto consunto rimanendo il collo), l’alesaggio, tenendo conto che la misura potrebbe essere fuorviante a causa della sventatura della bocca e delle cattive condizioni dell’anima (da misurare in calibri). Quindi è opportuno misurare anche la lunghezza e le circonferenze dei rinforzi, i diametri e le circonferenze degli orecchioni e della culatta in modo particolare.
Nel frattempo sarebbe utile risalire alla storia del reperto, considerato il probabile riuso come bitta da ormeggio, provvedendo anche alla valorizzazione e la più consona sistemazione su una riproduzione di affusto alla marina dell’epoca.

Armando Donato - Responsabile Comitato Storico Siciliano sez. Messina
Si ringraziano Gianpiero Vaccaro e Claudio Pardini

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martedì 18 ottobre 2011

Resoconto 1° Raduno duosiciliano di Palermo



Sabato 16 ottobre 2011 sarà ricordata come una data storica per il movimento borbonico e duosiciliano di Palermo, almeno per me, perchè ho avuto l'occasione di trovare tanti nuovi amici finora conosciuti solo telematicamente, che di presenza hanno confermato di essere delle persone degne di stima. Senza dimenticare i vecchi amici, che hanno voluto confermare il loro impegno venendo da altre parti della Sicilia ed accollandosi parecchie ore di viaggio.

Il 1° Raduno Borbonico della Sicilia è stato fortemente voluto dal sottoscritto e da Linda Cottone per rispondere alle forti esigenze che il capoluogo siciliano, aveva di ritrovare la propria dignità storica perduta ed alle tante richieste di amici palermitani che volevano dare il proprio contributo alle Due Sicilie.

Per quel che mi riguarda la manifestazione non poteva riuscire meglio, la formazione e la coagulazione di uno zoccolo duro duosiciliano nella seconda capitale del Regno, può dirsi finalmente realtà.E sono sicuro che porterà buoni frutti e magari il prossimo anno si potrà fare una replica....

Ringrazio tutti i partecipanti (scusandomi in anticipo per i nomi che non ricordo) tra cui Carlo Martino, Armando Donato(con Valentina al seguito) e Salvo Merito, rispettivamente responsabili provinciali del Comitato Storico Siciliano di Palermo, Messina e Catania, Euranio La Spisa, Savio Parrinello, Francesco Paci, Gianluca Marco Adamo, Fabio Lombardo, Pino Marinelli(con figlia), Giovanni Maduli, Antonio Ciano, Nino Sala, Gian Marco Ambra, Placido Altimari(con moglie), Francesco Coscia, Rosario Sferruzza.

Dopo il raduno è opportuno ricordare che presso la chiesa di Santa Maria La Nova vi è stata un messa solenne in onore dei caduti del Risorgimento, oltre che la visita all'Arsenale Borbonico, vero orgoglio duosiciliano, che ospita un museo con tutte le eccellenze navali e militari del Regno delle Due Sicilie e non solo.
In realtà, l'arsenale è stato costruito nel '600, ovvero nel periodo spagnolo, ma il Direttore ci ha spiegato che l'aggettivo "borbonico" gli è stato dato proprio perchè in quel periodo raggiunse il massimo grado di sviluppo.

Purtroppo come spesso accade in Sicilia, complice la mancanza cronica dei fondi e l'assoluta inadeguatezza delle Sovrintendenze, alcuni oggetti e mi riferisco ai cannoni non erano stati periziati correttamente come è stato fatto notare da Armando Donato al pur valente Direttore, il quale ha dovuto ammettere che le artiglierie erano di marina e non di terra come invece era stato spiegato.

A coronare la lunga giornata una conferenza sull'evento tenutasi nel cuore della vecchia "Vucciria"

Grazie a tutti ed arrivederci presto.
Davide Cristaldi


IL LINK CON LE FOTO DELLA MANIFESTAZIONE

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giovedì 8 settembre 2011

La stazione telegrafica borbonica del Forte di Capo Passero


Sezione della carta delle linee telegrafiche duosiciliane

Imbattendomi casualmente sul sito Fortedicapopassero.it curato dal Dr. Antonello Capodicasa e con il quale mi sono poi intrattenuto in una piacevole telefonata, ho notato che alla ricca descrizione storica del monumento manca la parte in cui esso ebbe la funzione di telegrafo ottico (1816-1861) durante il Regno delle Due Sicilie.

La stazione di Capo Passero, per la sua posizione strategica fu adibita alle "scoverte di mare" ovvero alla segnalazione descrittiva di tutti i navigli che passavano dal Capo oltre che alle comunicazioni con i legni della Real Marina.


Telegrafo ottico modello "Depillon" - foto Salvo Carreca

Il telegrafo di Capo Passero (modello Depillon a 3 braccia) era collegato visivamente
alla stazione posta al Lido di Noto (presso la Colonna Pizzuta, che dalla terrazza del Forte è certamente visibile) ed era fonte di messaggi per tutto il Regno delle Due Sicilie.

Il telegrafo del Forte, oltre ad essere ben segnato nella "Carta indicante le linee telegrafiche del Regno delle Due Sicilie - G.Arena - 1860" viene citato in altri documenti d'epoca come si evince dall'immagine successiva (1).




Davide Cristaldi


(1) Guida statistica su la Sicilia e sue isole adjacenti, F.Arancio, 1844, Palermo, pp.43

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L'Aquila del Castello di Randazzo



Il 5 settembre 2011 è stata consegnata gratuitamente alla Soprintendenza per i beni culturali di Catania e al Museo Archeologico di Randazzo presso il Castello, la perizia compresa di ricostruzione digitale dell'aquila che sovrastra il portale di ingresso del castello-carcere di Randazzo.

Sopra il portone d’ingresso del Castello-Carcere di Randazzo, oggi museo archeologico “Paolo Vigliasindi”, sono presenti i resti di un’aquila di pietra in altorilievo. In particolar modo la scultura è mancante (rispetto all’osservatore) di parte della zampa sinistra, parte dell’ala destra e della testa oltre che di un altro elemento architettonico (Toson d’oro) che scopriremo più appresso, la cui mancanza si nota dal buco presente nella parte alta della coda.

Inoltre risultano completamente illeggibili le armi che componevano lo stemma sul petto dell’aquila.
Fortunatamente la lapide posta sotto l’aquila è ancora integra e grazie alle informazioni storiche in essa contenuta è stato possibile ricostruire digitalmente i blasoni e le armi, oltre che l’ordine cavalleresco, ornanti il regale volatile...



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mercoledì 7 settembre 2011

FRATELLI D'ITALIA DOV'E' LA VITTORIA di Eliana Esposito



..E se scoprissimo che la Storia che ci hanno raccontato per 150 anni non fosse proprio veritiera? e se scoprissimo che gli eroi che ci hanno fatto sempre osannare non fossero così eroi?..

Uno spettacolo di Eliana Esposito con la collaborazione del Comitato Storico Siciliano

Lo spettacolo, la cui regia è curata dalla stessa autrice, è articolato come un processo "surreale", che vede passare sul banco degli imputati o dei testimoni, a seconda del caso, i Grandi della Storia i quali, a quanto ci è stato sempre insegnato, avrebbero fatto l’Unità d’Italia. Ma fu tutto oro quello che brillò? Bisogna capire. Se, come dice Arrigo Petacco, "in guerra la prima vittima è sempre la verità" in quella del Risorgimento deve essersi verificata un’anomalia forse unica al mondo: la storia cominciò ad essere scritta prima ancora che la guerra cominciasse.

Bisogna allora mettere un po’ d’ordine e fare un po’ di chiarezza perché "la verità è l’unica cosa che può fare gli italiani! La verità unisce"! Ed a questo mira l’autrice ricostruendo un processo "storiografico" basato su documenti dell’epoca da lei ricercati ed analizzati con certosina pazienza. Ecco sfilare sul palco Enrico Cialdini, Vittorio Emanuele II, Ferdinando II di Borbone, Giuseppe Garibaldi, Francesco Crispi, Francesco II di Borbone, Maria Sofia di Borbone, Cavour, interrogati e giudicati sia dalla Giustizia " da tribunale" rappresentata da avvocati e magistrato e sia da quella "popolare" rappresentata dalla donna delle pulizie. Dodici gli attori in scena, Gabriele Arena, Fiorenza Barbagallo, Nanni Battista, Giuseppe Calaciura, Cosimo Coltraro, Gianpaolo Costantino, Raffaella Esposito, Iolanda Fichera, Saro Pizzuto, Emanuele Puglia, Silvio Salinari e Sabrina Tellico, chiamati a rappresentare l’identità, la dignità, i lutti, la storia del popolo del meridione.


Lo spettacolo andrà in scena presso CORTILE PLATAMONE - via Landolina, 5 - Catania, giorno 15 settembre alle ore 21:00

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1° Raduno dei duosiciliani e borbonici di Sicilia



Il Comitato Storico Siciliano è lieto di annunciare che domenica 16 ottobre 2011 a Palermo, si svolgerà il 1° Raduno dei duosiciliani e borbonici di Sicilia.
L'evento, che vede la nostra Associazione tra gli organizzatori, è stato fortemente voluto da molte persone che in Sicilia erano alla ricerca di una base comune con cui condividere la passione identitaria per le Due Sicilie e per la storia borbonica.

L'appuntamento è a Palermo alle ore 09:30 presso l'Arsenale Borbonico che ospita un museo contentente vari pezzi di artiglieria borbonica (ingresso 2 euro)
Seguirà la visita a Palazzo Reale.

Alle 11:30 Santa Messa in onore delle vittime meridionali del Risorgimento, presso la Chiesa di Santa Maria La Nova

Dopo la messa, i partecipanti si daranno appuntamento presso l'attigua Piazza San Domenico, dove è prevista una sbandierata di vessilli borbonici ed un banchetto di volantinaggio.
Alla fine del pranzo conviviale, previsto per le 13:30, si terrà una conferenza presso il locale Ex Coccodrillo alla Vucciria, sito in Via Argenteria Vecchia, seguiranno dibattiti e videoproiezioni.
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Messina/Nasce l'associazione Culturale "Virtus et sapientia"



Il Centro di Studi Storici e Promozione Culturale "Virtus et sapientia" è un'associazione nata da un'idea di Antonino Teramo ed Armando Donato, già responsabile del CSS-Messina e vicepresidente regionale, ed opera in partnership con i Comitato Storico Siciliano.

Lo scopo è quello di incentivare il turismo culturale e di valorizzare le risorse culturali e paesaggistiche di Messina e della sua Provincia utilizzando a pieno titolo le professionalità dei soci e di quanti si prefiggano gli stessi obiettivi e siano disposti a collaborare.

La cultura, intesa come risorsa, non è sfruttata dal settore pubblico per creare occupazione e tutelare i resti del passato. Per questo è necessario un impegno concreto di chi ha le competenze per riempire il vuoto di idee e di azioni in questo settore importantissimo che non può essere assolutamente trascurato.

Il nome dell'Associazione contiene un invito alla correttezza morale: la sapienza, intesa come conoscenza nella continua ricerca della verità, deve essere accompagnata dalle virtù per poter essere davvero completa.
Nella simbologia del logo, rappresentato in uno scudo araldico, sono concentrate tutte le intenzioni appena espresse.

Nello specifico, l’Associazione ha come obiettivo lo sviluppo, la diffusione e l’organizzazione di attività culturali comprese quelle escursionistiche, didattiche e ricreative che concorrono a favorire lo sviluppo della cultura storica, della valorizzazione del territorio e della difesa dell’ambiente.
In particolar modo l’Associazione vuole:

-promuovere lo sviluppo del turismo culturale e la valorizzazione storico culturale del territorio di Messina e della sua Provincia attraverso la proposta di idee e mediante iniziative concrete;

-incentivare l’investimento di risorse materiali e umane per il turismo culturale;

- promuovere la cultura in ogni suo aspetto, compresa la lingua italiana ed il dialetto siciliano, le tradizioni religiose, le tradizioni popolari, la musica, l’arte, le tradizioni culinarie;

- valorizzare e conservare ma anche produrre cultura mediante l’organizzazione o la partecipazioni a convegni, seminari, corsi, incontri, escursioni, mostre e tutto quanto sia utile alla realizzazione delle finalità sociali;

- promuovere e favorire lo sviluppo dell’ escursionismo nel suo complesso, ovvero le attività relative alle visite guidate, manifestazioni escursionistiche, sentieristica, trekking, nel rispetto della natura e delle tradizioni locali, promuovendo tutto quanto necessario per assicurare l’informazione e la divulgazione;

- in modo particolare si occuperà dello studio e della valorizzazione di appositi percorsi dall’elevato contenuto storico, ricchi di testimonianze e vestigia ancora esistenti;

- effettuare studi e ricerche storiche in tutti i settori: storia e achitettura militare, araldica, numismatica e tutti gli ambiti della ricerca storica che sono utili al raggiungimento dei fini sociali;

- curare la pubblicazione di notiziari, riviste, bollettini, guide, mappe e ogni altro materiale anche in forma digitale e tramite internet, destinato a divulgare la conoscenza del territorio, dell’ambiente, dell’escursionismo e del patrimonio storico di Messina e Provincia;

- collaborare con enti e associazioni operanti nel settore culturale, storico militare e della rievocazione storica;

- gestire e procedere alla manutenzione di immobili storici, sentieri, rifugi, manufatti, e attrezzature varie e quanto attinente alla realizzazione degli scopi dell’Associazione.

Il sito internet dell’Associazione “Virtus et sapientia”, si trova all’indirizzo: http://vesmessina.altervista.org

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sabato 16 luglio 2011

Repubblica: Replica al Dott. Juri Bossuto sui borbonici di Fenestrelle.

 



Mi sento in dovere di ribattere alle affermazioni storiche del Dott. Bossuto, apparse su Repubblica l'8 luglio 2011, secondo le quali i borbonici morti a Fenestrelle sarebbero soltanto 4.
Prima di iniziare però è necessario fare una premessa: l'articolo è stato scritto l'8 luglio ed in parte racconta anche lo svolgimento della manifestazione, si legge infatti di improbabili "vessilli leghisti" e di una "cerimonia antirisorgimentale" (come se commemorare dei morti, i propri, debba essere "anti" a prescindere). Peccato però che la manifestazione si è svolta il 9 di luglio, ovvero il giorno dopo.

Escludendo che il Dott. Bossuto abbia il dono della Preveggenza, ma allo stesso tempo non volendo pensare che Egli abbia voluto appositamente gettare discredito su quel momento di raccoglimento, ho pensato invece che quelli di Bossuto siano "concetti nati da suggestioni" gli stessi di cui, si sarebbe reso reo, come si legge nell'articolo, il Dott. Lorenzo Del Boca, giornalista e storico di fama nazionale, non certo improvvisato.

Ma andiamo ai fatti storici.

Dalle carte della rassegna mensile "L'italia militare" di Torino del 1864, emerge che nei soli mesi di ottobre e novembre del 1860 arrivarono a Genova i primi 8000 prigionieri borbonici, secondo la seguente scaletta:

7 ottobre 1860 = 900
17 ottobre 1860 = 360
8 novembre 1860 = 3600
11 novembre 1860 = 2330
24 novembre 1860 = 810

Questi soldati furono assegnati a vari dipartimenti, ognuno dei quali corrispondeva ad un campo di prigionia, Fenestrelle era il 5° dipartimento.

Con i dati a disposizione riesce facile capire che le prime truppe del Regno delle Due Sicilie vengono deportate nei campi del Nord Italia soltanto sul finire dell'anno 1860, ma d'altronde sarebbe bastato ricordarsi che Garibaldi sbarca a Marsala soltanto l'11 maggio...

Difatti i 4 soldati borbonici morti, di cui parla il Bossuto e presenti nell'archivio parrocchiale di Fenestrelle situato presso il Priorato di Mentoulle, sono deceduti rispettivamente nei giorni:

11 novembre 1860
23 novembre 1860
30 novembre 1860
idem

Considerando che le nuove spedizioni di prigionieri borbonici, di renitenti e di nuove leve dal Sud, sempre secondo "L'Italia Militare", iniziarono dal 1° febbraio 1861, è facile dedurre che la ricerca del Dottor Bossuto è stata eseguita in maniera inadeguata, concentrata su un arco temporale di appena 45 giorni su anni ed anni di prigionie e basandosi su frettolose ed approssimate ricerche compiute sugli atti di morte della Parrocchia, quando dall'Archivio di Stato di Torino dalle prime ricerche stanno fuoriuscendo decine di nomi.

Su una cosa di certo Bossuto ha ragione, a Fenestrelle non sono morte 40.000 persone, questo numero probabilmente non si avrà nemmeno sommando i decessi di tutti i campi di concentramento e prigionia del Nord Italia, direi però di partire dalla somma totale di 15.000 che "trapassarono da questa all'altra vita", come riporta la sopracitata rivista, avvenute tra la fine del 1860 ed il 1864. Una cifra sufficientemente spaventosa.

Davide Cristaldi
Comitato Storico Siciliano

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martedì 12 luglio 2011

La faccia oscura del Risorgimento



Articolo apparso su Controvoce n.22 del 3 giugno 2011
di Prof. Francesco Castrogiovanni, Sciacca (AG)

Da sempre si vede nel Risorgimento il compimento di un ideale nazionale portato a termine con l’annessione al Regno di Piemonte del Regno delle Due Sicilie e degli altri piccoli stati presenti al tempo sul suolo italiano. Protagonisti di questo periodo furono uomini il cui nome risuona nelle vie e nelle piazze di tutta la Penisola. Quelli di Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II sono solo alcuni dei nomi degli artefici di un' unità che trovava la sua forza, apparentemente, negli ideali di tanti sinceri patrioti, ma, più in concreto, negli interessi e negli intrighi di molte corti europee. Ma quegli anni furono davvero così gloriosi come da sempre vengono rappresentati nei libri di storia?

Secondo numerosi studiosi, anche locali, di varie epoche, il processo che portò all’Unità d’Italia non fu esattamente legale ed indolore per tutte quelle popolazioni del Meridione che vennero costrette a sottomettersi ad un sovrano di cui a malapena conoscevano l’esistenza, che parlava un'altra lingua (francese) e che si vantava di aver letto nella sua vita un solo libro: il regolamento militare. Lavori editoriali recenti e meno recenti ci fanno, infatti, scoprire aspetti dell’Unità poco noti. Ci fanno conoscere, ad esempio, Garibaldi diverso dall’eroe dei due mondi che ci hanno presentato da bambini ed infine e danno una spiegazione sorprendente del perché un Meridione che fino a centocinquanta anni fa era ricco e prospero, adesso si trovi ad essere la “palla al piede” di un Settentrione industrializzato e florido. A mo’ di esempio, un recente articolo pubblicato dal periodico partannese Kleos sull'istruzione elementare comunale in epoca borbonica a Partanna (TP) ci deve far riflettere riguardo il reale stato di progresso di quello Stato.
Ora, siccome la storia è fatta di fonti, ne cerchiamo per brevità solo qualcuna, fra le tante. Lo scrivente invita chiunque ne avesse desiderio a contattarlo e/o ad iniziare un dibattito su queste pagine. Procederemo per temi.

Tema 1: situazione siciliana preunitaria.
- Giacinto De Sivo (storico): “La Sicilia sotto il governo dei Borbone contava due milioni e mezzo di abitanti e con essi crebbero industrie, monumenti, ordine, sicurezza e prosperità… la popolazione era intelligente, ospitale e fantasiosa”.

Tema 2: spedizione dei Mille:
- La Farina, (fuoruscito messinese che intrallazzava con Cavour) “Esperos”, 24 gennaio 1862: «Per quattro anni lo scrittore di questi articoli vide quasi tutte le mattine il Conte di Cavour senza che alcuno dei suoi intimi amici lo sapesse. Andando sempre due o tre ore prima di giorno e sortendo spesso da una scaletta segreta, contigua alla sua camera da letto, quando in anticamera era qualcuno che lo potesse conoscere. E in uno di questi notturni abboccamenti – nel 1858 – fu presentato al Conte di Cavour il Generale Garibaldi venuto clandestinamente da Caprera”
- Ammiraglio Persano, comandante della flotta piemontese che per conto di Cavour, riforniva dal mare la spedizione e che corruppe gli ufficiali della Marina Borbonica: racconta nei suoi diari che Cavour gli aveva messo a disposizione presso alcuni banchieri amici suoi, che avevano una filiale a Napoli, un “credito illimitato”. Letteralmente: “La Casa de la Rue di Genova aprirà in Napoli, presso il banchiere Degas un credito illimitato a mia disposizione”
- Ancora Persano, corrispondenza con Cavour: “Ho dovuto somministrare, Eccellenza, altro denaro: 20.000 ducati al de Vicenzi, 2.0000 al console Panciotti, 4.000 al comitato. Mi toccò contrastare col de Vicenzi, presente il marchese di Villa Marina. Ei chiedeva più di 20mila ducati. Ed io non volevo neanche dargliene tanti”.
- Curletti, inviato da Cavour per sorvegliare Garibaldi: “Se Garibaldi, dittatore di Napoli e della Sicilia si accontentava di un modesto assegno di 10 franchi al giorno, i suoi non operavano con lo stesso disinteresse. Bertani, segretario di Garibaldi, prima della spedizione in Sicilia (1860 )era un semplice ufficiale di Sanità a Genova facendo visite ad un franco e cinquanta centesimi. Oggi, 1861, Bertani è colonnello di Stato Maggiore e la sua fortuna, secondo i più modesti calcoli, raggiunge almeno la cifra di 14 milioni! Non si conosce l’origine se non di 4 milioni. Ed anche l’origine di questi non è pura!...questi 4 milioni furono la mancia (allora si chiamavano mance, oggi si chiamano tangenti, nda) che Bertani pretese dai banchieri Adami e Comp. di Livorno perché fosse loro accordata una concessione di ferrovia che essi gradatamente sollecitavano”.

Tema 3: leva obbligatoria (di diversi anni) introdotta in Sicilia a pochi mesi dalla proclamazione dell'unità dopo secoli di esenzione (capitolo tragico della storia siciliana per via dei moltissimi giovani che non si presentarono con conseguenti violenze e soprusi sulla popolazione civile da parte delle autorità militari):
- Giornale di Genova “ Il Movimento” del 21 settembre 1863 + discorso del deputato Cordova al Parlamento di Torino: “a Marsala, come in tutti i paesi dell’Italia meridionale, essendovi dei renitenti alla leva viene bloccata la città da duemila soldati, comandati da un maggiore, che intima al municipio di consegnare gli sbandati...il sindaco protesta contro quel vandalismo, le proteste aggravano la situazione, si chiudono le strade di comunicazione, i commerci fermati, i contadini fermati e arrestati: ne furono imprigionati circa tremila, tolti ai loro lavori e gettati, come sacchi di paglia in una catacomba mai adoperata sotto i Borbone. Il maggiore, saputo che fu il prefetto, fu avvertito per far cessare quelle violenze, aumentò gli arresti, le minacce, le persecuzioni, le torture dei malcapitati, come se si vivesse ai tempi di Attila...l’atroce spasmo dei carcerati sotto terra, che esce come rombo apportatore della bufera, le strida di tanti bimbi che dimenandosi con le manine, cercano la madre che li allatti”.
- Deputato siculo D’Ondes Reggio, discorso del 5 dicembre del 1863 alla Camera dei deputati di Torino:” Devo esprimere a voi fatti miserandi e sui quali il ministero non accetta inchiesta. Eppure non si tratta di partiti politici; ma dei diritti,della giustizia e dell’umanità orrendamente violati! I siciliani non hanno mai avuto leva militare, e repugnano ad essere arruolati...il Governo ha fatto una legge eccezionale, che è eseguita con ferocia...il comandante piemontese Frigerio, il 15 di agosto del 1863, intima al comune di Licata, 22 mila abitanti, di far presentare entro poche ore i renitenti alla leva privando l’intera città di acqua, vieta ai cittadini di uscire di casa pena la fucilazione istantanea e di altre più severe misure. A Licata vennero chiusi in carceri le madri, le sorelle, i parenti dei contumaci alla leva, sottoposti a tortura fino a spruzzare il sangue delle carni; uccisi i giovinetti a colpi di frusta e di baionetta; fatta morire una donna gravida! Della stessa barbarie e degli stessi delitti si macchiarono i militari di Trapani, di Girgenti, di Sciacca, di Favara, di Bagheria, di Calatafimi, di Marsala e di altri comuni...un altro comandante piemontese dispone l’arresto di tutti coloro dai cui volti si sospetti d’essere coscritti di leva, e anche l’arresto dei genitori e dei maestri d’arte dei contumaci: questo avveniva a Palermo”
- Libro dei morti, Chiesa Madre di Castellammare del Golfo: “Romano Angela filia Petri et Joanna Pollina consortis. Etatis sua an.9 circ.Hdie hor.15 circ in C.S.M.E Animam Deo redditit absque sacramentis in villa sic dicta della Falconera quia interfecta fuit at MILITIBUS REGIS ITALIE. Eius corpus sepultum est in campo sancto novo." (Vicenda tragica, si tratta di una bambina di nove anni fucilata a Castellammare del Golfo insieme a Don Benedetto Palermo, di anni 43, sacerdote, Mariano Crociata, di anni 30, Marco Randisi, di anni 45, Anna Catalano, di anni 50, Antonino Corona, di anni 70; Angelo Calamia, di anni 70; Erano le ore 13 di venerdì 3 gennaio 1862. Non seppero o non vollero dire dove si fossero nascosti dei giovani renitenti)
- Libro dei morti di Fenestrelle, lager piemontese per soldati borbonici che non tradirono mai, “briganti” e renitenti siciliani alla leva (migliaia e migliaia di morti sciolti nella calce viva): il 10 novembre 1866 registra la morte, all’età di venticinque anni, del castelvetranese Montalto Michele figlio di Francesco e di illeggibile Giacomina.

Tema 4: brigantaggio (che fu in buona sostanza guerra partigiana fomentata dalla Chiesa e da Francesco II in esilio; vi furono fatti di sangue terribili ed esempi di rappresaglie dei fratelli d’Italia sulla popolazione civile)
- Carlo Margolfo, bersagliere partecipe alla strage di Pontelandolfo, in cui sono stimati almeno duemila morti, per una rappresaglia: “Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare? non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore: quattordicesima tappa. Fu successo tutto questo in seguito a diverse barbarie commesse dal paese di Pontelandolfo: sentirete, un nido di briganti...”
Durante la strage, altre fonti raccontano che molte donne furono uccise e violentate. Una ragazza di sedici anni, legata ad un palo in una stalla, fu stuprata da dieci bersaglieri, davanti agli occhi del padre, e poi assassinata. I soldati entrarono in casa di un tal Giuseppe Santopietro che stringeva il figlioletto tra le braccia, e li trucidarono entrambi a colpi di baionetta. A Raffaele Barbieri fu strappata la lingua e il poveretto soffocò nel suo stesso sangue. Le chiese vennero profanate, perfino nei tabernacoli con le ostie consacrate, e spogliate di tutto. Trenta donne radunatesi terrorizzate ai piedi di una croce nella piazza del paese vennero sventrate a colpi di baionetta.

A proposito di brigantaggio, la retorica post unitaria parla di delinquenti non di partigiani. In effetti fino ad allora c'erano stati i briganti, come è sempre capitato ovunque. Ma ora c'era il brigantaggio; tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Sono briganti se il popolo non li aiuta, quando si ruba per vivere o per morire con la pancia piena; col brigantaggio la causa del brigante è la causa del popolo.
Concludo questo mio intervento per proclamare il mio convinto W l'Italia unita e repubblicana.
Vorrei però che anche le vittime meridionali della storia fossero ricordate perché non sono vittime di serie B. I civili di Pontelandolfo e gli innocenti di Castellammare del Golfo, i briganti partigiani leali a Francesco II sono italiani innocenti o morti per un ideale, come le vittime delle Fosse Ardeatine, ma nessuna carica dello Stato le ricorda. Perché? Perché non si riesce a fare i conti col nostro passato? W l'unità nella verità, la verità rafforza l'unità!

Prof. Francesco Castrogiovanni
castrogiovannifranco@tiscali.it

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sabato 9 luglio 2011

Il reperto storico recuperato sarebbe una "carronata" (LA SICILIA)


IPOTESI DELLO STORICO DONATO

Portopalo. Non sarebbe un cannone risalente alla battaglia di Capo Passero del 1718 il reperto recuperato alcuni gironi fa a Portopalo. Ad avanzare l'ipotesi è lo storico militare Armando Donato, del Comitato Due Sicilie di Messina. Il pezzo ritrovato sarebbe una carronata.

«Si tratta - afferma Donato - di una particolare arma dal design tozzo e volata corta, progettata a partire dagli ultimi trenta anni del Settecento e armata su varie tipologie di navi per il combattimento a corta distanza e distruttivo mediante palla o granata».
Secondo Donato, vari sono i modelli e i calibri delle carronate prodotte nel tempo, sostanzialmente utilizzate sino alla metà dell'Ottocento e oltre, seppur l'avvento dei cannoni obici modello Paixhans e Millar ne avesse già dagli anni Venti-Trenta dell'Ottocento da tempo limitato il valore prestazionale, anche a causa di alcuni svantaggi tecnici.

«Il pezzo in questione - conclude lo storico militare - non è dunque un cannone, né può riferirsi alla battaglia di Capo Passero tra le flotte spagnola e inglese nell'agosto del 1718, poiché in quell'epoche la carronata non esisteva ancora». Per avere elementi certi per la datazione del reperto è necessario aspettare la ripulitura del pezzo d'artiglieria, da sottoporre quindi a pesatura e misurazione in tutte le sue parti. L'esame approfondito servirà a rilevare eventuali date e marchi di fusione per potere identificare con certezze le origini e ricostruirne la storia.

SERGIO TACCONE
La Sicilia, Edizione di Siracusa, 9 luglio 2011

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giovedì 7 luglio 2011

Sul cannone rinvenuto recentemente a Porto Palo di Capo Passero (SR)


La carronata di Portopalo

di Armando Donato M.
Comitato Storico Siciliano - Messina

Il pezzo di artiglieria ritrovato nei fondali di Portopalo, è un carronata, ovvero una particolare arma dal design tozzo e volata corta, progettata a partire dagli ultimi trenta anni del Settecento e armata su varie tipologie di navi per il combattimento a corta distanza e distruttivo mediante palla o granata.

Vari sono i modelli e i calibri delle carronate prodotte nel tempo, sostanzialmente utilizzate sino alla metà dell’Ottocento e oltre, seppur l’avvento dei cannoni obici mod. Paixhans e Millar ne avesse già dagli anni Venti-Trenta dell’ Ottocento da tempo limitato il valore prestazionale, anche a causa di alcuni svantaggi tecnici.
Il pezzo in questione non è dunque un cannone, né può riferirsi alla battaglia di Capo Passero tra le flotte spagnola e inglese nell’agosto del 1718, poiché in quell’epoche la carronata non esisteva ancora.

Tuttavia per poter dare ulteriori e specifiche notizie, è necessario che l’artiglieria venga ripulita, pesata, misurata in tutte le sue parti ed esaminata allo scopo di rilevare eventuali date e marchi di fusione che ne possano identificare le origini, l’appartenenza e il calibro e di conseguenza ricostruirne la storia.

Armando Donato - storico militare

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mercoledì 6 luglio 2011

Capo Peloro, i cannoni-obici mod. Millar e Paixhans armati nelle batterie garibaldine nell’estate del 1860



di Armando Donato M.
Responsabile Comitato Storico Siciliano - Messina
Messina 6 luglio 2011

Tra le batterie armate dai garibaldini sulla costa nord dello stretto di Messina nel 1860, indicate nella relativa carta delle coste con tanto di quota, tipi di artiglierie suddivisibili in cannoni, cannoni-obici, obici e mortai, nonché i tipi di affusto e settore di tiro; una in particolare fa ben comprendere come i tre noti cannoni recuperati in loco nel 2010, nonostante le evidenti forzature storiche, qualora ci fosse ancora qualche dubbio e come viene sostenuto da tempo, nulla hanno a che vedere con le grosse artiglierie usate in difesa costiera garibaldina.


Infatti così come segnala chiaramente la carta, la batteria N° III armata nei pressi della zona del recupero dei tre ferrivecchi (è bene tenere nella giusta considerazione che i luoghi in cui furono armate le batterie garibaldine, erano già stati sedi di più antiche postazioni, trinceramenti e fortificazioni in genere, protagoniste di numerosi eventi bellici) si componeva di artiglierie di grosso calibro di preda bellica napoletana, ovvero un pezzo da 24 libbre, due da 60 libbre e successivamente due da 80 libbre, tutti su affusti da marina.

Premesso ciò, non è necessario elencare ed esibire varie documentazioni d’epoca (ne esistono decine e decine di varia natura circa le batterie armate in loco), ma basta avere un minima conoscenza nel settore per comprendere che la batteria armava i cannoni-obici mod. Millar da 60 libbre da marina a bomba (prima metà dell’Ottocento), cioè quelli della ex pirofregata Veloce (poi Tuckery) smontati dalla nave, armati a fine luglio a Capo Peloro e gestiti degli stessi pochi marinai cannonieri borbonici ammutinatisi. Gli 80 libbre erano invece i famosi cannoni -obici mod. Paixhans da marina a bomba, (prima metà dell’800) usati a Messina anche nei fatti del 1848.

Il 24 libbre invece, calibro minimo utile, ampiamente utilizzato nelle batterie costiere poiché grazie al maggiore rapporto volata – alesaggio, in gittata rendeva di più dei grossi 36 libbre (armati in altre batterie), poteva essere uno dei tanti pezzi borbonici utilizzati in Sicilia già a partire dalla fine del Settecento inizi Ottocento, tenendo conto che qualsiasi regno (borbonico compreso) procedeva sistematicamente nel tempo al rinnovamento delle Piazze con nuove varie artiglierie e regolamenti sia a scopi difensivi che offensivi, eliminando quelle vetuste e inservibili.

Risulta più che evidente, leggendo la carta succitata, che dunque nel 1860 per la copertura costiera contro le moderne navi borboniche, veloci (sistemi propulsivi termici ausiliari), ben protette e armate per il tiro a lunga distanza (ad es. la pirofregata Borbone), erano necessarie grosse artiglierie quantomeno simili e di uguale potenza, non certo i tre pezzi in questione, da considerarsi come piccola e antica ferraglia inservibile e inefficace, progettata in epoche remotissime, rispondente ad esigenze superate da secoli avendo caratteristiche e prestazioni “ridicole” rispetto alla tecnologia di metà Ottocento.

I cannonieri garibaldini che di certo non erano pazzi suicidi, al fine di proteggere le coste da navi nemiche a dir poco pericolose, applicarono questi semplici e ovvi concetti, armando artiglierie il più possibile adeguate all’epoca, nonostante evidenziassero già i limiti prestazionali per via dell’età (20- 40- 80 anni) e fossero considerate vetuste per via dell’utilizzo di più moderne artiglierie. L’argomento è molto vasto e complesso, tuttavia in tal caso per chiarire il tutto sono più che sufficienti queste poche righe.
Minimo sforzo-massimo rendimento.

Armando Donato

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mercoledì 15 giugno 2011

Tour Borbonico a Catania



Sabato 25 giugno alle ore 09:30 si svolgerà una visita guidata tra le vie della Catania borbonica, per ammirare le opere più importanti che il periodo del Regno delle Due Sicilie ha lasciato alla città.

L'appuntamento è in Piazza Duomo, dove si inizierà con la visita del monumento dell'Elefante, per poi proseguire agli Archi della Marina e Villa Pacini, ove sono esposte le statute colossali dei sovrani, Ferdinando II e Francesco I di Borbone, quest'ultima sconosciuta ai catanesi.

Successivamente ci sposteremo lungo Via Garibaldi per arrivare alla settecentesca Porta Garibaldi (rispettivamente Via e Porta Ferdinandea) costruita per onorare il matrimonio di Re Ferdinando con Maria Carolina di Borbone, avvenuto ne 1768.

Il giro si chiuderà con una visita esterna alla struttura del Castello Ursino, che per alcuni anni fu chiamato Forte Ferdinando in onore di Ferdinando II e attorno al quale si svolsero dei fatti militari di notevole importanza storica.

Gli accompagnatori ufficiali saranno Salvo Merito, Armando Donato e Davide Cristaldi.

Davide Cristaldi

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lunedì 13 giugno 2011

"Una mostra con strascichi razzisti che mi offende"



SAN MAURO. LA POLEMICA DI UN GENITORE SICILIANO IN VISITA ALLA RASSEGNA SUL 150° ORGANIZZATA DALLE SCUOLE

San Mauro - Massimo Plescia ha un bimbo che frequenta la scuola elementare.
Come tanti altri genitori ha visitato fra il 25 e il 27 maggio la mostra allestita dal circolo didattico sanmaurese al'interno della sala al piano terra del Comune.Tanti cartelloni e tante storie di personaggi che hanno contribuito all'unità d'Italia.
"Purtroppo i libri di storia - interviene Plescia - sono ancora fermi ad una propaganda di tipo savojardo, questo lo sappiamo. D'altronde la storia la scrivono i vincitori.Quello che mi ha ferito l'altro giorno è che gli insegnanti hanno fatto appendere immagini di briganti meridionali scannati ed altre foto, che mi sembrano tanto quelle degli identikit di Cesare Lombroso con i suoi "psicocriminali". E sotto campeggiavano didascalie del tipo "contadino del Sud" ed ancora immagini di braccianti vestiti di stracci, accanto a borghesi piemontesi.A sottolineare la differenza di status"

Il genitore è rimasto interdetto ed ha deciso di chiedere a un insegnante di togliere quei cinque o sei cartelloni ritenuti offensivi sulla dignità di chi al Sud ci è nato e cresciuto.
Ed è, ovviamente, orgoglioso di essere meridionale.
"Mi hanno guardato come si guarda un mostro - prosegue -.Così me ne sono andato e sono tornato il giorno dopo. I cartelloni erano sempre li. Un bimbo di quinta mi ha fatto da Cicerone e mi ha spiegato che i bambini del Nord vestivano bene e, invece, quelli del Sud erano tutti dei poveracci, lerci e sporchi.

Anche sulla questione del brigantaggio i bambini hanno le idee poco chiare, perchè i libri di storia non raccontano che gran parte delle bande di briganti erano composte da semplici contadini che avevano risposto all'appello del Re Francesco II, ormai in esilio, di non sottomettersi ai Savoja, di continuare a combattere. I meridionali venivano considerati tutti alla stessa stregua dalla legge Pica: da giustiziare per il solo fatto di essere nati al Sud".

E' indignato Massimo Plescia, ma pronto a mettersi a disposizione della Direzione Didattica per allestire una nuova mostra ed organizzare un dibattito. Questa volta con argomentazioni che tengano conto anche dei primati stabiliti al Sud nel periodo per-unitario: dal primo telegrafo alla prima ferrovia, dalle scuole pubbliche e libere alla legge sulla leva obbligatoria.Cose che i libri di storia proprio non riportano.

Con altri studiosi della storia del meridione, Plescia sta dando vita ad un'associazione Pro-Sud:"Non si tratta di un'iniziativa anti-unitaria, sia ben chiaro, ma per far conoscere la storia del Meridione. Quella vera e troppe volte taciuta".

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martedì 31 maggio 2011

"FRATELLI D’ITALIA...DOV’E’ LA VITTORIA?" al Teatro Canovaccio di Catania



Invitiamo amici e simpatizzanti allo spettacolo che si terrà a Catania dal 2 al 6 giugno, un progetto al quale il Comitato Storico Siciliano ha fornito la sua consulenza storica.

CATANIA - Giovedì 2 giugno debutta presso il Teatro del Canovaccio di Catania, ove resterà in scena fino al 6 giugno, "Fratelli d’Italia…dov’è la vittoria", lavoro in due atti di Eliana Silvia Esposito.

Lo spettacolo, la cui regia è curata dalla stessa autrice, è articolato come un processo "surreale", che vede passare sul banco degli imputati o dei testimoni, a seconda del caso, i Grandi della Storia i quali, a quanto ci è stato sempre insegnato, avrebbero fatto l’Unità d’Italia. Ma fu tutto oro quello che brillò? Bisogna capire. Se, come dice Arrigo Petacco, "in guerra la prima vittima è sempre la verità" in quella del Risorgimento deve essersi verificata un’anomalia forse unica al mondo: la storia cominciò ad essere scritta prima ancora che la guerra cominciasse.

Bisogna allora mettere un po’ d’ordine e fare un po’ di chiarezza perché "la verità è l’unica cosa che può fare gli italiani! La verità unisce"! Ed a questo mira l’autrice ricostruendo un processo "storiografico" basato su documenti dell’epoca da lei ricercati ed analizzati con certosina pazienza. Ecco sfilare sul palco Enrico Cialdini, Vittorio Emanuele II, Ferdinando II di Borbone, Giuseppe Garibaldi, Francesco Crispi, Francesco II di Borbone, Maria Sofia di Borbone, Cavour, interrogati e giudicati sia dalla Giustizia " da tribunale" rappresentata da avvocati e magistrato e sia da quella "popolare" rappresentata dalla donna delle pulizie. Dodici gli attori in scena, Gabriele Arena, Fiorenza Barbagallo, Nanni Battista, Giuseppe Calaciura, Cosimo Coltraro, Gianpaolo Costantino, Raffaella Esposito, Iolanda Fichera, Saro Pizzuto, Emanuele Puglia, Silvio Salinari e Sabrina Tellico, chiamati a rappresentare l’identità, la dignità, i lutti, la storia del popolo del meridione.

PER INFORMAZIONI E/O RICHIESTE ACCREDITI TELEFONARE ALLO 095 530761 O AL 345 4120906 INOLTRE VI PREGHIAMO DI DIFFODERE IL COMUNICATO, STESSO MEZZO, AI VOSTRI CONTATTI.
GRAZIE PER L'ATTENZIONE.
CORDIALI SALUTI.
TEATRO DEL CANOVACCIO - Via Gulli, 12 - CATANIA

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Segnaliamo questo manifesto affisso a Sciacca


Manifesto da me affisso davanti al comune di Sciacca tramite agenzia pubblicitaria il 17 marzo e che è stato rubato e poi riaffisso il 19 marzo e rubato un'altra volta il 20 marzo.

di Francesco Castrogiovanni
Sciacca


Questa strada è intitolata a Re Vittorio Emanuele II di Savoia
Eroe risorgimentale opredone e criminale di guerra?


Oggi 17 marzo, ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Una riflessione è d’obbligo.

Se è vero che l’unità è un immenso patrimonio perché ogni frontiera abbattuta è progresso per l’umanità, molta amarezza sorge se si analizzano le notizie storiche (reali, non quelle false della retorica risorgimentale dei libri di scuola) su come l’unità fu fatta, sull’atteggiamento tenuto dalla classe dirigente italiana, prevalentemente settentrionale, verso il Sud in questi 150 anni, sulle colpevoli manchevolezze della classe politica meridionale post unitaria e successiva, sino a quella attuale, sul fatto che uno stato sovrano, il Regno delle Due Sicilie, con le casse erariali piene di oro svaligiate già dai garibaldini, più avanti sulla strada del progresso economico, tecnologico e sociale del “civilissimo” e finanziariamente fallito Piemonte, venne invaso senza dichiarazione di guerra e ridotto poi, in pochi decenni, alla fame, con la conseguente successiva nascita della questione meridionale e l’emigrazione di milioni di persone.

Interroghiamoci sui perché dell’asimmetrico sviluppo dell’Italia in questi 150 anni, su ciò che noi meridionali eravamo e su come ci hanno ridotto, sulle responsabilità passate e presenti di questo disastro, su quello che dobbiamo chiedere alla nostra scadente classe politica.

Interroghiamoci sui crimini di guerra commessi negli anni 1860-1870 in tutto il meridione d’Italia dai generali di Vittorio Emanuele II, con stragi di civili e distruzione di interi centri abitati (l’intera popolazione di Pontelandolfo fu massacrata per una rappresaglia), campi di concentramento per i soldati borbonici leali al loro legittimo Re e i ribelli lealisti (Finestrelle, Piemonte, dove in migliaia morivano di stenti entro pochi mesi dall’arrivo), saccheggi, furti stupri e distruzioni.

Intitoliamo questa strada ad Angelina Romano che il 3 gennaio 1862, insieme a Don Benedetto Palermo, 43 anni (sacerdote), Mariano Crociata, 30 anni, Marco Randisi, 45 anni, Anna Catalano, 50 anni, Antonino Corona, 70 anni, Angelo Calamìa, 70 anni, venne fucilata a Castellammare del Golfo perché non volle o non seppe dire ai “fratelli d’Italia” dall’elmo piumato, i bersaglieri che le spararono, dove si nascondevano alcuni giovani ricercati perché renitenti alla leva obbligatoria, introdotta da Vittorio Emanuele II dopo secoli di esenzione generale in Sicilia.

Angelina Romano aveva 9 anni.


Fuori Vittorio Emanuele II di Savoia dalla toponomastica della città!

Prof. Francesco Castrogiovanni

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martedì 24 maggio 2011

I vagoni della metropolitana catanese dedicati ai briganti borbonici



Si chiamano "Brigante" e "Donatello" e sono i due nuovi arrivati in casa Ferrovia Circumetnea, sezione metropolitana. I nomi sono stati scelti in onore del cosiddetto "banditismo sociale" e in particolare di Carmine Crocco, detto appunto Donatello, reazionario italiano filo borbonico, passato alla storia come il "Generale dei Briganti" o "Generalissimo".

Un storico bandito dalla fama non proprio edificante, ma che secondo l'azienda "tuttora per molti è considerato un eroe popolare". Il battesimo tenuto dal commissario Gaetano Tafuri (ex assessore al Bilancio della giunta Scapagnini) non è però passato inosservato.

Dice Salvatore Lupo, ordinario di Storia contemporanea all'Università di Palermo e autore del saggio "Il grande brigantaggio" inserito nel volume "Guerra e pace": "E' vero, Crocco era il più famoso in quel periodo postunitario. Ma attribuirgli motivazioni politiche mi sembra forzato. Era un tagliagole". Ma Tafuri non è d'accordo: "La storiografia è scritta dai vincitori.

Il banditismo è stato un movimento reazionario di fronte all'invasione del regno sabaudo, scialacquone e fortemente indebitato, che aveva bisogno di risanare le proprie casse" (di Rosa Maria Di Natale).

fonte: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2011/04/29/foto/i_vagoni_della_metropolitana_dedicati_ai_briganti_dell_800-15503406/1/

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lunedì 18 aprile 2011

Capo Peloro prima e dopo il 1860



di Armando Donato
Vicepresidente CSS Sicilia

L’agiografia risorgimentale ha ovviamente condizionato anche la trattazione delle vicende del luglio 1860 a Messina e la breve permanenza di Garibaldi in quel di Capo Peloro. Se a ciò si aggiunge l’esclusione e/o la totale disconoscenza, spesso di natura ideologica, dei periodi storici precedenti e successivi a quell’anno, si viene a creare uno dei tanti enormi e pericolosi vuoti di cui Messina è troppo spesso vittima.

Poiché ai fini della ricerca storica e lo studio approfondito dei reperti, è piuttosto riduttivo, superficiale se non ridicolo ridimensionare la storia di questo importantissimo luogo ai soli fatti del 1860, è bene tenere nella giusta considerazione che esso fu sede di ben più antiche batterie, postazioni, trinceramenti e fortificazioni in genere, protagoniste di numerosi eventi bellici; e continuò ad esserlo sino al secondo conflitto mondiale.
Dunque è bene fare un breve excursus circa i periodi storici che interessarono Capo Peloro, partendo, per non dilungarsi eccessivamente, dalla fine del Seicento.
Nel dicembre 1674 gli Spagnoli, nell’ambito della rivolta messinese, vi effettuarono uno sbarco protetto da 15 galere che bombardarono la torre, poi conquistata con tutti i cannoni. Molteplici in tale contesto i duelli tra le artiglierie navali spagnole e i cannoni della Torre del Faro. Tuttavia il luogo fu a più riprese conquistato e perso, quindi presidiato a fasi alterne da Spagnoli, Francesi e Messinesi. Il Romano Colonna a tal proposito afferma: «e per non lasciar dell’intutto libera la campagna ai messinesi, restati già chiariti, che i francesi non portarono soldatesca bastante a guarnire la città, e guardare quella, fecero nuovo sforzo di fortificarsi nella Torre del Faro, fabbricando ivi un forte con molti cannoni, e formando in quella pianura un campo di un grosso numero di soldati». Altri testi raccontano della costruzione nella punta del Faro «di un fortino ben guarnito con artiglieria e gente armata e stipendiata di sopra».
Nel XVIII le mire delle potenze europee, che a vario titolo e per motivi commerciali puntavano allo smembramento dell’impero spagnolo, portarono a una fase complessa di giochi e intrecci che scaturirono in quella che fu definita la guerra di successione spagnola (1702-1713/14), che si concluderà sostanzialmente col trattato di Utrecht, tramite il quale la Sicilia passerà in mano ai Savoia.
Tale situazione aveva nel frattempo consentito che i pirati inglesi, francesi e olandesi invadessero il Mediterraneo, depredando anche il naviglio vario che passava nello stretto di Messina. Alcune documentazioni infatti segnalano nel 1711 la presenza di quattro galeotte triremi spagnole ben armate, che terrorizzavano le coste calabresi, tanto che il governo di Napoli inviò due nuove galere per pattugliare le coste e scortare i convogli di grano e derrate alimentari provenienti dall’Adriatico attraverso lo stretto.

Interessante anche il periodo circa la guerra della quadruplice alleanza (1717-1720), nel quale la Spagna si contrapponeva a Olanda, Inghilterra, Austria e Francia, per il controllo del Mediterraneo. Nel 1717 la Spagna aveva invaso la Sardegna e nel contempo, insieme all’Austria, era interessata alla Sicilia nonostante Utrecht; infatti il primo luglio 1718 un contingente spagnolo forte di trentamila soldati e protetto da 22 navi, sbarcò a Palermo mentre i sabaudi evacuavano l’isola ritirandosi presso la Cittadella di Messina, che fu posta sotto assedio. Ma l’intervento della flotta inglese dell’ammiraglio Byng, che sbaragliò quella spagnola presso Capo Passero (Siracusa) nell’agosto dello stesso anno, capovolse la situazione. Gl’inizi della battaglia si erano avuti nello stretto di Messina, nella cui porzione nord era ancorata la flotta spagnola, protetta dalle batterie costiere. In seguito truppe austriache e inglesi (sbarcate anche presso la Torre Faro nell’agosto del 1719), avevano affrontato gli Spagnoli, conquistando la Sicilia, e a quelli non fu permesso di lasciare il posto sino alla firma della pace. Lo Smith nel 1814 segnala la presenza nel porto di Messina dei relitti di due navi da guerra spagnole, riuscite a riparare dopo la battaglia di Capo Passero e affondate all’ormeggio dall’ammiraglio Byng durante l’assedio del 1719, mediante una batteria austriaca appositamente armata. Ciò per evitare sia che le navi potessero tornare in patria dopo la fine delle ostilità, sia che nascessero dispute per il possesso delle prede belliche. Si trattava di un vascello da 64 cannoni, varato nel 1716 e di una fregata da 50 cannoni varata nel 1702. Una terza nave da 56 cannoni varata nel 1703 era stata catturata presso il porto di Messina dopo la battaglia di Capo Passero.
Nel 1720 fu siglato il Trattato dell’Aia che pose fine alla guerra: gli Asburgo in cambio della Sicilia rinunciarono alla Sardegna e a qualsiasi pretesa al trono spagnolo, mentre Vittorio Amedeo II di Savoia fu incoronato re di Sardegna. La Sicilia passò dunque nel 1720 agli Austriaci che vi regnarono per 14 anni, allorquando gli Spagnoli, conquistato il Meridione d’Italia, ritornarono sull’isola e nei pressi di Capo Peloro il luogotenente Marsillac sbarcò alla volta di Messina, mentre il nemico austriaco abbandonava il presidio per ritirarsi nella Cittadella.

Quindi, a seguito della nascita del regno borbonico (1734-1861), le aree costiere siciliane furono difese già a partire dalla metà del Settecento, soprattutto a protezione delle scorrerie piratesche che infestavano il Mediterraneo. Infatti in quegli anni l’Amico descrive il villaggio del Faro dotato di una torre con «attaccata una fortezza fornita di artiglierie e custodita da un presidio di soldati sotto un prefetto». Nel 1783 la Torre del Faro era armata e definita dal De Burigny «ben munita e con presidio». Significativo l’episodio accaduto nel 1734, allorquando una tempesta scagliò sulle coste dello stretto tre navi corsare, di cui una sulla spiaggia di Capo Peloro, catturata con tutto l’equipaggio musulmano.
Nel 1799 la protezione antincursiva siciliana fu potenziata con centinaia di artiglierie per la difesa costiera, mentre la Real Marina disponeva di 86 navi varie. In realtà in quell’anno, con tutta la penisola in mano ai Francesi, fu messo in atto un vero e proprio piano difensivo della Sicilia, per cui si provvide a costruire varie barche cannoniere, a far fondere nuove artiglierie, organizzare le difese costiere e gli eserciti. In tale contesto l’area di punta Faro già presidiata da 18 artiglieri litorali nel 1792 e nel 1798 classificata come campo trincerato retto da un tenente colonnello, vide l’anno successivo l’aggiunta nel fortino del Faro di sei cannoni da 36 libbre e quattro mortai da 12 libbre e altre decine di pezzi in tutto il territorio della Piazza. Dal 1803 la Piazza di Messina (brigadiere Guillichini) poneva la sua difesa su varie fortificazioni ancora oggi esistenti, tra cui la Torre del Faro comandata da un colonnello. La Piazza di Milazzo, da considerarsi altro punto strategico, era invece nel 1803 retta da un brigadiere e nel 1807 risultavano armate quattro batterie del fronte a mare.
Con la perdita del regno di Napoli nel 1798 i Borbone si rifugiarono in Sicilia (i quali ritornati a Napoli dopo qualche anno, furono costretti nel 1806 a ripetere la fuga verso Palermo) e insieme agli alleati inglesi contrastarono il nemico franco-napoletano, il quale, disceso verso sud, si era accampato sulla costa calabra tentando di sbarcare sull’isola attraverso lo stretto.


Intensissime quindi le attività delle contrapposte flotte navali e vari gli episodi bellici tra attacchi, incursioni, cannoneggiamenti, terminati solo nel settembre del 1810 con il fallito sbarco delle truppe al comando del Murat sulle coste sud di Messina. Gli sbarchi sarebbero dovuti essere tre, di cui uno programmato a Capo Peloro, ma la reazione delle forze anglosiciliane respinse l’unico sbarco provocando il ritiro delle truppe francesi verso il nord della penisola. Intanto dal 1803 le coste del Regno erano vigilate da un totale di 419 torri litoranee servite da artiglieri litorali; nel 1806 a Messina fu costruito l’arsenale di artiglieria e nel 1808 a Messina e Milazzo (oltre alle truppe inglesi) prestavano servizio circa 500 artiglieri litorali. Il Cockburn cita nel dettaglio le tante batterie di cannoni, mortai e relativi trinceramenti inglesi (i quali posero le loro basi principali a sud, in zona Contesse e San Placido, e a nord presso Faro e Piano dei Campi, ridenominato Campo Inglese), costruiti nel 1810 a Messina su tutta la costa della città, da nord verso sud presso Mortelle, C. Peloro, Torre del Faro, Ganzirri, Fiumara Guardia, Grotte, S. Salvatore dei Greci, Messina, Contesse e Mili. Nel 1812, subito dopo la fine della minaccia francese i presidi erano ancora armati, così come bene evidenzia la mappa del piano delle fortificazioni dello stretto, a cura del Distretto di Messina. Secondo il Purdy nel 1814 in zona erano armate due batterie costiere insieme ad artiglierie nelle torri martello coordinate dal telegrafo di Spuria. Nel 1815 la Torre del Faro era una Piazza di 3^ classe al comando di un ufficiale superiore. Nel 1833 l’organizzazione militare e la classificazione delle Piazze e forti del regno, indicava la Torre del Faro come presidio di quarta classe comandato da un capitano. Inoltre uno scritto del 1834, descrivendo il villaggio di Torre Faro, evidenzia alcune batterie di cannoni poste a difesa della Torre.
Nel 1847 la Torre del Faro era ancora un forte di quarta classe e l’anno successivo l’area in questione era dotata di «un Faro utile al riconoscimento delle navi in ingresso, posto su una torre accompagnata da un fortino quadrato ben armato». Lo stesso anno il parlamento siciliano includeva la Torre del Faro nella Piazza di Messina, dipendente dalla seconda direzione di artiglieria, inserendola tra le Piazze di quarta classe.

Nel 1848 dunque, dopo l’abbandono borbonico dei presidi e il ritiro nelle fortificazioni del porto, furono i rivoluzionari siciliani ad armare, oltre a pezzi minori, quattro cannoni da 24 libbre presso il fortino del Faro, una batteria tra la Torre di Faro e la Torre Mazzone a ovest, e altre quattro batterie tra la Torre del Faro e la Torre di Ganzirri sul versante est: in totale due pezzi da 80 libbre e venti da 24 e 36 libbre (non a caso pezzi dello stesso calibro di quelli armati in loco dai garibaldini nel 1860), che in più occasioni duellarono con le artiglierie della navi borboniche. Lo Scalchi afferma che tra la torre del Faro e Messina furono costruiti dieci fortini, ciascuno armato con quattro pezzi di grossa artiglieria. Il comandante borbonico di Messina, maresciallo Pronio, segnalava nel 1848 che presso la Torre del Faro, in mano ai rivoltosi, vi era una batteria a pelo d’acqua e sei altri pezzi, oltre quelli già esistenti. Secondo i piani le batterie dovevano essere sorvegliate da ben 1000 uomini posti presso il forte di Spuria.. Interessante la documentazione che afferma che nel 1848 il senato di Palermo volesse far innalzare a punta Faro un monumento commemorativo. Nel settembre del 1848, dopo sette mesi di assedio della Cittadella da parte rivoluzionaria, protetto da una squadra navale forte di 286 cannoni che bombardarono le posizioni nemiche, sbarcò a sud di Messina il reggimento Real Marina, un vero e proprio reparto anfibio che consentì l’atterraggio di quattro battaglioni, i quali, insieme ai reparti del maresciallo Pronio usciti con una sortita dalla Cittadella, misero in seria difficoltà l’esercito rivoluzionario provocando l’abbandono progressivo dei presidi siciliani tra cui Capo Peloro con le sue batterie, Milazzo, lasciata alle truppe borboniche ancora munita di 24 cannoni di grosso calibro e 8 da campagna, sino a Palermo nel 1849. Alla fine dei fatti il capo della spedizione, tenente generale Filangeri, aveva preso ai rivoltosi di Messina 21 bandiere nonché tutte le artiglierie (oltre cento) e relativo munizionamento, barche cannoniere, un piroscafo armato e armi varie.

Nel 1852 un ufficiale borbonico ipotizzava la prosecuzione delle batterie inglesi edificate quarant’anni prima sulla costa nord della città, in modo da unire i presidi di difesa marittima di Messina e della Torre del Faro. L’Orsini nello stesso anno descriveva l’ingresso dello stretto «chiuso da un seguito di batterie bene stabilite che si prolungano dalla città sino alla torre fortificata del Faro». Nel 1856 l’area di Capo Peloro era ancora dotata di batterie, mentre vari autori segnalano nel 1860 la presenza di artiglierie presso la torre del Faro.
Nel luglio-agosto 1860 dunque, a seguito del ritiro delle truppe borboniche, l’esercito garibaldino giunse a Messina ponendo a Capo Peloro il campo base e varie batterie di artiglieria in attesa di sbarcare sul continente e proseguire la campagna di unificazione. Esistono a tal proposito non una o due, ma decine tra documentazioni e mappe, che indicano nello specifico la tipologia dei pezzi posizionati e che da sole smentiscono alcune teorie locali.
Nel frattempo i resti dell’esercito borbonico, nonostante il blocco effettivo dei presidi e i tentativi del nemico di farli desistere o passare dalla sua parte, restarono asserragliati nelle posizioni armate della zona falcata sino al 12 e 13 marzo 1861, cedendo solo a seguito degli effetti delle potenti artiglierie piemontesi, che dal febbraio 1861 assediavano le posizioni borboniche, in modo particolare la Cittadella.

Anche dopo l’Unità il luogo in questione rimase presidiato. Infatti già nel 1863 a Torre del Faro vi era un distaccamento di artiglieria, nel 1864 la torre fu classificata opera di prima categoria, nel 1865 si provvide ad armare le batterie dello stretto con artiglierie napoletane, aggiunte a cannoni da 40 libbre rigati e nel 1866 tutta l’area di Capo Peloro fu inserita nel Piano di Difesa dello Stato, seppur con successive dismissioni,attraversando via via tutte le vicende politiche e militari successive. Il luogo rimase significativo anche nel XX secolo, inserito nei vari piani difensivi redatti nel tempo (nel 1910, 1913, 1915 e 1931) e a partire dalla seconda metà degli anni Trenta fu difeso con varie batterie permanenti contraeree, costiere e a doppio compito, alle quali, in modo particolare nel 1942-43, si aggiunsero quelle campali tedesche, mentre la sommità della torre veniva munita di stazione fotoelettrica mobile su binario e il mare era pattugliato da naviglio vario tra cui le vedette antisommergibile. In modo particolare già prima della guerra erano presenti in loco la batteria MS620 della Milmart e una da 75/27 AV ad uso Dicat insieme ad una postazione per aerofono. Dalle mappe inglesi del luglio 1943 risultavano in loco: una batteria contraerea da 90 mm, una doppiocompito da 90 mm e una costiera da 120 mm. L’ultimo periodo bellico attraversato fu dunque quello del secondo conflitto mondiale, nel quale il luogo fu spesso bersagliato dalle incursioni aeree e scelto nel luglio 43 come uno dei punti di imbarco delle truppe tedesche verso la Calabria nell’ambito dell’Op. Lehrgang, ultimata con successo nell’agosto dello stesso anno.

Armando Donato

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"I 150 anni dell'Unità d'Italia" al I Salone del Libro di Messina


Mostra "I 150 anni dell'Unità d'Italia" al I Salone del Libro di Messina - 15 - 17 Aprile 2011, PalaCultura "Antonello da Messina".

L'Associazione Amici del Museo di Messina ha partecipato al prestigioso evento con ben due mostre: "I 150 anni dell'Unità d'Italia" e "La Storia di Messina attraverso i libri di Franz Riccobono".

di Marco Grassi
Messina

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venerdì 15 aprile 2011

Opere Pie borboniche: il Principe di Collereale


Giovanni Capece Minatoli, Principe di Collereale

Appartiene a una delle più antiche e nobili famiglie messinesi di origine napoletana, si avviò alla carriera militare, attingendone con rapidità i più alti gradi. Fu così coinvolto nei moti del 1821, nei quali assunse il comando delle forze borboniche e domò la rivoluzione; si meritò perciò la stima e la riconoscenza anche dei suoi avversari, tra i quali lo stesso G. Rosseroll , capo dei rivoluzionari, da lui sconfitto ma anche aiutato a fuggire.

Di lui ci ha lasciato il seguente ritratto G. La Farina, noto per i suoi sentimenti antiborbonici: ''Bello nella persona, piacevole ed arguto nel conversare, pronto a soccorrere gli infelici e a riprendere i malvagi, odiatore delle ingiustizie, di probità senza macchia, assoluto nei modi, e animoso sino all'audacia''.
Colpito da paralisi e martoriato da acerbi dolori, rammaricatasi pensando a coloro che, travagliati da simili malattie, vivono anche nell'indigenza e sono impossibilitati e procurarsi non solo i farmaci ma persino gli alimenti.

Era questo l'argomento delle sue conversazioni con gli amici che andavano a visitarlo.
Con testamento del 7 luglio 1825 egli perciò costituiva suoi eredi universali gli invalidi poveri, disponendo per essi la fondazione che da lui prende il nome.
Il 20 marzo, giorno della sua morte, venne aperto e pubblicato il suo testamentoolografo, steso due anni prima, nel quale i suoi sentimenti religiosi e filantropici trovarono concreta espressione. Con esso, infatti istituì suoi eredi universali ''li poveri di questa città (Messina) e suoi casali, che sono paralitici, stroppi, zoppi, e che hanno altro male, o vizio nell'organizzazione del corpo per cui non possono lavorare, o procacciarsi il pane, sino a quel numero che soffre il frutto annuale della mia eredità come infra si espressero per alimentarsi e vestirsi ad necessitatem''.

Il 23 gennaio 1828, appena un anno dalla morte del Principe, un vecchio convento rimesso a nuovo e ribattezzato PIO STABILIMENTO DEGLI STORPI aprì le sue porte per accogliere i primi 14 ospiti.

Segnalato da Rino Cascone di Catania
fonte: http://www.collereale.it/fondatore.html

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giovedì 14 aprile 2011

Le insorgenze borboniche a Pantelleria



Il 6 Giugno 1860 una speronara attracca dalle parti di Cuddie Rosse.
Solo un mese è trascorso dallo sbarco di Garibaldi a Marsala. A bordo vi sono tre filo-piemontesi e un tricolore.
Se dobbiamo credere che mille garibaldini conquistarono la Sicilia, possiamo credere egualmente che tre uomini e una bandiera conquistarono l’isola minore.
La verità, in Sicilia come a Pantelleria, è che la popolazione si spaccò in due, tra chi voleva l’annessione al Regno d’Italia e i “legittimisti” delle Due Sicilie.

La resa di Pantelleria venne contrattata con il governatore militare, un certo De Angelis, che accettò senza sparare una schioppettata, e tornandosene a Napoli con i suoi soldati, la costituzione di un Consiglio civico provvisorio alla cui testa venne posto Fortunato Ribera.
Il Ribera era esponente di una delle principali famiglie dell’isola, quest’ultima attraversata, probabilmente al pari di tutte le altre, da una frattura interna tra filo-piemontesi e filo-borbonici.

La frattura sfociò quasi subito in disordini incontrollati dei quali molti panteschi approfittarono per regolare conti personali. La giunta provvisoria resse per un paio di mesi senza riuscire a riportare l’ordine finché, il 17 Agosto, una delle tante schioppettate che rallegravano quei giorni uccise Fortunato Ribera.
Non si saprà mai chi fu a sparare, né se vi furono mandanti.
Tuttavia, il partito filo-piemontese, che trovò un nuovo leader nell’arciprete Giovanni D’Aietti, accusò del delitto i fratelli Michele, Giuseppe, Agostino e Giovanni Ribera, figli di Antonio fratello di Fortunato, e dunque nipoti dell’assassinato, nonché membri del partito filo-borbonico.
Non vi era uno straccio di prova nei confronti dei fratelli Ribera, ma le forze armate piemontesi, che nel frattempo erano sbarcate sull’isola, approfittarono dell’accusa per scatenare la repressione e liquidare la resistenza borbonica.
Così i fratelli Ribera finirono al bando, ma scamparono all’arresto rifugiandosi a Bugeber dove contavano sull’appoggio della popolazione locale e sulla vicinanza delle forre di Gelfiser, impervie e non più frequentate dai tempi delle crociate.
I rastrellamenti dei piemontesi sortirono qualche sparatoria e una sostanziale impotenza.
Nei mesi successivi ai fratelli Ribera si aggiunsero altri filo-borbonici panteschi, sufficienti per tenere sotto scacco le truppe piemontesi, ma non abbastanza per riprendere il controllo dell’isola. Così, i filo-borbonici decisero di espatriare a Malta, dove agiva un “Comitato borbonico” tollerato dagli inglesi e protetto dalla Chiesa (che con giusta lungimiranza vedeva di malocchio i piemontesi).

I filo-borbonici trascorsero a Malta alcuni mesi discutendo sul da farsi.
Tra i fratelli Ribera, che comandavano il gruppo, emersero due posizioni: una, caldeggiata da Michele, che era il maggiore dei fratelli, prevedeva l’espatrio in attesa di tempi migliori; l’altra, sbandierata da Giuseppe, prevedeva la riconquista immediata dell’isola alla causa borbonica.
Prevalse la tesi di Giuseppe e la famiglia si spaccò definitivamente: Michele e alcuni seguaci, rimasero a Malta; di essi si perderanno le tracce.
Il 30 Giugno 1862 i filo-borbonici, capeggiati da Giuseppe Ribera, effettuarono un contro sbarco a Pantelleria.
E’ difficile valutare la consistenza di questo corpo di spedizione armato.
Gli effettivi ammontavano probabilmente ad una ventina di persone, alcune delle quali abbracciarono la causa, non solo per ideali, ma anche per sottrarsi alla coscrizione militare imposta dai piemontesi, che era assai lunga e sconosciuta nel Regno delle Due Sicilie.
A questi occorre sommare numerosi fiancheggiatori, o irregolari, tra i panteschi parenti degli insorti e tra coloro che nel cambio di regime avevano perso qualcosa.
Si aggiunga che, nei due anni precedenti, si erano interrotti i collegamenti navali con il continente, con grave danno per l’economia locale e per la stessa annessione dell’isola al Regno d’Italia.
Insomma, tra le righe delle fonti si intuisce che buona parte della popolazione stava con gli insorti.

Il gruppo dei filo-borbonici spadroneggiò sull’isola per oltre un anno. In quei mesi furono presi di mira i principali membri del partito filo-piemontese, in particolare quelli della famiglia Maccotta.
Le azioni, che mieterono vittime, si svolsero anche in pieno giorno e nel centro del paese, dove gli insorti si spinsero al punto da affiggere bandi e ordinanze. Scampò, invece, ad un serio attentato Luigi Maccotta, che nelle vesti di sindaco, protetto dalle truppe savoiarde, capeggiava allora il partito filo-piemontese. Pantelleria era nel caos, divisa tra un capoluogo in mano ai filo-piemontesi e il resto dell’isola controllato dai filo-borbonici che, al pari di quelli che ormai controllavano ampie zone dell’Italia meridionale, si iniziava a definire“briganti”.
I piemontesi, tuttavia padroni dei gangli vitali dell’ex Regno delle Due Sicilie, reagirono e il 15 Agosto 1863 promulgarono la legge Pica che completava il decreto di stato d’assedio delle province meridionali (considerate “infette”) dell’anno prima.

La legge Pica definiva “brigante” chiunque fosse sorpreso armato in un gruppo di tre persone altrettanto armate.
I processi, demandati alla corte marziale, prevedevano pene severissime che andavano dai lavori forzati a vita, alla fucilazione o impiccagione. Nei processi, che non contemplavano appello, prevalse sempre la seconda ipotesi.
Nel caso di Pantelleria il governo usò il pugno duro.

Tramite il generale Govone, che con la libertà di fucilare a piacimento si occupava di reprimere la resistenza in Sicilia, i savoiardi spedirono a risolvere la questione il colonnello Eberhard, già avvezzo alle questioni di brigantaggio, con 500 militari piemontesi.
Eberhard, il cui nome ricorda una nota marca di orologi, affrontò la questione con puntiglio svizzero ma, inizialmente, con scarsi risultati. L’isola venne battuta palmo a palmo alla ricerca degli insorti, senza trovarli; questi, dal canto loro, continuavano le loro azioni di rappresaglia.
Eberhard, allora, istituì uno stato marziale che finì per rendere impossibile la vita ai panteschi: domicilio nel capoluogo, coprifuoco, controllo sugli spostamenti e soprattutto un pesante carico fiscale per mantenere le truppe di occupazione.
A cedere (forse per denaro) fu un pastore, Francesco Greco, che segnalò al colonnello il rifugio dei “briganti”, una grotta di scorrimento lavico profonda una cinquantina di metri, sita in cima alla Montagna Grande sul versante che guarda a Sud-Est.
Le truppe che la sera del 18 Settembre si mossero per porre l’assedio agli insorti, comprendevano 500 piemontesi regolari e 400 panteschi filo-piemontesi.
Gli uomini, divisi in tre squadre, raggiunsero la cima del monte il mattino seguente.
Vi fu una sparatoria tra gli assedianti e i filo-borbonici asserragliati nella grotta e ormai in trappola.
Le trattative di resa furono condotte dal colonnello in persona, che minacciò di affumicare la grotta con vapori di zolfo.
La resa venne ottenuta, sotto promessa di incolumità degli assediati.
Gli insorti furono incatenati e condotti in paese.
Per l’occasione Eberhard inscenò un sinistro corteo trionfale con tamburi rullanti e bandiere. Poi i prigionieri, dapprima rinchiusi nel Barbacane, furono trasferiti alla Colombaia di Trapani.
Da qui Giovanni e Agostino Ribera, ed altri insorti, evasero in modo rocambolesco; furono tutti ripresi, ad eccezione di Giovanni che riuscì a far perdere le sue tracce per sempre.
Alla sbarra della corte marziale si presentarono in quattordici e il 14 Giugno 1867 dieci di essi vennero condannati a morte e quattro ai lavori forzati (di cui tre a vita). La sentenza capitale venne eseguita per tre soli di essi, tra i quali Giuseppe e Agostino Ribera, che furono ghigliottinati il 2 Maggio 1868.
Ignoriamo la sorte degli altri condannati e di quelli che riuscirono a fuggire, ma non dubitiamo che fu poco felice.

2 Maggio 1868 Ci chiediamo, fra molti dubbi, se non sia questa la data in cui Pantelleria venne effettivamente annessa al Regno d’Italia; un regno il cui primo re, Vittorio Emanuele, si ostinerà a farsi chiamare “secondo”, come già nel suo piccolo regno torinese, quasi ad ammonire che l’Italia nasceva quale “cul de sac” del Piemonte. Invero, quel giorno, morirono alcuni panteschi che nessun festeggiamento ricorderà mai, perché si trovarono a combattere dalla parte sbagliata.
Marcella Labruna e Fabrizio Nicoletti.

fonte: http://coen.blogautore.repubblica.it/2011/03/17/lannessione-dei-panteschi/

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venerdì 25 marzo 2011

La Pirofregata Borbone



di Armando Donato
Messina, 26 marzo 2011

La marina militare borbonica di metà Ottocento era una delle più efficienti e moderne d’Europa, infatti la cantieristica e l’ingegneria navale borbonica avevano raggiunto insieme alla progettazione e produzione delle artiglierie, un avanzato livello tecnologico; vasta era infatti la produzione negli stabilimenti di Pietrarsa, nei cantieri di Castellammare di Stabia e nella Real Fonderia e Barena di S.M. il Re delle Due Sicilie (diretta dal ten. col. Mori). Non è infatti un caso che la neomarina militare italiana nacque grazie alle navi borboniche.

Un esempio eloquente è quello della pirofregata di primo rango Borbone, modernissima nave ad elica, tipica del periodo cosiddetto di transizione tra la propulsione velica e quella a vapore. La pirofregata Borbone infatti era dotata di alberatura e nello stesso tempo di apparato termico ausiliario.
Fu varata nel gennaio 1860 su progetto di G. De Luca, e presentava lo scafo in legno di quercia di Calabria con carena ramata e dimensioni pari a 68 metri di lunghezza, 15 di larghezza e 7 di pescaggio.
La stazza era di 4000 tonnellate, mentre la macchina motrice Mudslay & Field sviluppava una potenza di 1000 cavalli che la spingevano ad una velocità di 10 nodi. L’armamento consisteva in due ponti (uno scoperto e uno coperto) a batteria con 8 pezzi rigati (a dimostrazione che la rigatura dei cannoni non era un‘esclusiva piemontese), 12 pezzi lisci da 72 libbre a bomba, 26 da 68 a bomba e 4 da 8 in bronzo.

La Borbone nell’estate del 1860 faceva parte del cospicuo gruppo di temibili navi da guerra che pattugliavano lo stretto contro le sortite garibaldine sulla sponda calabra, nell’agosto dello stesso anno infatti, al comando del C.F. Flores, bombardò i presidi garibaldini del Faro, provocando feriti e affondando naviglio vario. In un’altra occasione tentò invece di speronare la corvetta a ruote Tuckery, ovvero la ex pirofregata borbonica di secondo rango Veloce, consegnatasi all’amm. Persano nel luglio del 1860.

Passata alla marina sarda nel settembre 1860 fu ribattezzata Giuseppe Garibaldi partecipando al bombardamento delle Piazze di Ancona nel settembre 1860 e Gaeta nel febbraio 1861, mentre il mese successivo entrò ufficialmente nella regia marina italiana subendo nel tempo varie modifiche, ridenominazioni e classificazioni. Assolse ed espletò diversi compiti e servizi sino al disarmo e la demolizione avvenuta nel 1899. La Borbone fu la prima nave militare ad elica costruita in Italia.

Armando Donato
Vicepresidente CSS Sicilia

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Messina 1860 - L’imprevisto fallimento dei piani garibaldini di sbarco in Calabria e il decisivo aiuto inglese


di Armando Donato
Messina, 25 marzo 2011

Nel luglio 1860, col facile ingresso garibaldino a Messina senza combattimenti a causa di accordi vari, l’area di Capo Peloro fu scelta quale piattaforma logistica, punto di attracco dei convogli navali e di concentramento di truppe, rifornimenti, artiglierie che via via affluivano e si accampavano in attesa dello sbarco in continente, tramite varie barche e circa undici navi acquistate, ammutinate o catturate.

Garibaldi predispose dunque i piani per approdare in Calabria, che dovevano consentire l’atterraggio di piccole teste di sbarco sulla costa, partendo dalla punta del Faro e dai canali che collegano i pantani di Ganzirri al mare, ripuliti e usati come nascondiglio per le barche e altro materiale. Ciò consentiva di approdare in punti morfologicamente vantaggiosi per infilarsi nel mezzo delle difese nemiche e conquistare gli obiettivi principali, ovvero i presidi di Torre Cavallo e Altafiumara in modo particolare. Le operazioni infatti dovevano essere effettuate all’interno di uno specchio d’acqua di ridotta larghezza. Tuttavia la situazione politica era complicata, con varie iniziative da parte borbonica, piemontese e francese (e la pseudo neutralità inglese) per impedire a Garibaldi di metter piede sul continente. Nel frattempo la Sicilia era nel caos governativo e già soggetta ai primi atti dittatoriali, mentre erano già nati vari partiti con differenti idee circa il da farsi.

Anche la situazione militare per l’esercito garibaldino in riva allo stretto era più complessa del previsto. Infatti l’obiettivo era come affermato di attraversarlo, conquistare i presidi sulla sponda opposta, assicurando le operazioni di traghettamento dell’esercito e proseguire la Campagna sulla penisola. Garibaldi aveva però almeno in parte sottovalutato la difesa navale e costiera borbonica, la quale secondo i piani non avrebbe dovuto creare problemi. Egli confidava e si cullava sulle rassicurazioni di Cavour, circa la mancata difesa da parte borbonica e la protezione della squadra navale sarda (che però non accennò mai nessuna azione contro la marina nemica) del viceamm. Persano, il quale aveva mandato a Messina tre sole navi al comando del conte Albini, con istruzioni di “stretta neutralità apparente, protezione di fatto occorrendo”, affermando che secondo gli accordi con alcuni comandanti borbonici, la presenza delle navi sarde sarebbe bastata a impedire le azioni delle navi borboniche, da intendersi comunque poco incisive e pronte al disimpegno al primo problema.

In merito alle operazioni nello stretto di Messina è infatti significativa la frase contenuta in un lettera scritta il 9 agosto dal Cavour al Persano, che recita “il problema che dobbiamo risolvere è questo: aiutare la rivoluzione, ma far si che al cospetto d’Europa appaia come atto spontaneo. Ciò accadendo, la Francia e l’Inghilterra sono con noi, altrimenti non so cosa faranno”, e ancora “mi si assicura d’altronde che il generale non troverà ostacolo durante lo sbarco, stante il contegno della marina napoletana”.
E’ bene anche ricordare che all’epoca il controllo totale dello stretto di Messina doveva inevitabilmente basarsi sullo schieramento di batterie poste sui due contrapposti fronti a mare, in modo da poter coprire le varie distanze, con l’ausilio del naviglio armato che completava la sorveglianza dell’area. Senza il controllo delle due sponde la difesa garibaldina della costa era soggetta ai cannoneggiamenti di disturbo e potenziali sbarchi nemici, mentre il successo delle azioni di attacco era messo in crisi dal pattugliamento navale e dalla difesa costiera nemica. Primario quindi l’obiettivo dei garibaldini di approdare in Calabria per consentire le successive attività di traghettamento. Il comandante garibaldino Rossi confermava ciò sostenendo che ”padroni del Faro da un lato, la presa di Altafiumara assicurerà il transito dell’esercito, impedendo col fuoco dei due forti di fronte, l’avvicinarsi delle navi di Francesco II”.

Invece Garibaldi nonostante avesse mandato in Calabria i suoi agenti pensando di sistemare le cose senza problemi, si rese ben presto conto che fosse impossibile in quella situazione, controllare lo stretto muovendosi liberamente, infatti le attività di pattugliamento della flotta borbonica, seppur con defezioni e tradimenti come ad esempio quello della pirofregata a ruote di II rango Veloce, erano costanti anche se avrebbero sicuramente potuto essere più incisive e determinanti per il fallimento delle operazioni garibaldine. Il dittatore infatti doveva confrontarsi con un nemico ben organizzato per la difesa antisbarco, forte di vari reparti di linea e di esploratori, fortificazioni, punti di osservazione e decine di artiglierie dislocate lungo tutta la costa calabra dello stretto, la cui sorveglianza era completata da circa 10 moderne navi da guerra borboniche tra pirofregate, pirocorvette e avvisi. Garibaldi non aveva ancora potuto eludere la vigilanza “della numerosa crociera che solcava le acque del Faro”, poiché le navi napoletane erano costantemente in allarme a causa dei potenziali tentativi di sbarco in Calabria, in modo particolare dal 10 agosto. Ciò spingeva a cannoneggiare le imbarcazioni e le batterie garibaldine presso il Faro.

a notte lo stretto era annebbiato dai razzi colorati lanciati tra le fortificazioni borboniche in Calabria o con la Cittadella di Messina, per comunicare e scambiare segnali. Una notte una nave borbonica cannoneggiò le batterie ubicate nei pressi della torre del Faro, ma le granate esplosero fuori bersaglio vicino ad un accampamento angloamericano sede di un club (l’Albion, demolito per ordine dello stesso Orsini, poiché troppo esposto al fuoco navale nemico). La situazione era tale che i militi accampati sulla spiaggia di Faro erano ben consci di poter dormire tranquilli solo se le navi da guerra nemiche non cannoneggiavano la costa, infatti alcuni testimoni riferivano: “i nostri sonni erano tutt’altro che placidi e lunghi, giacché ogni notte c’era gazzarra di cannonate e fuochi di fucileria per parte dei regi che dalle navi e dalle spiagge tiravano contro le nostre barche”. Un ufficiale dei bersaglieri accampato presso la spiaggia del Faro, nel lamentare le pessime condizioni di vita, la scarsa paga la inesistente organizzazione della intendenza e sussistenza, nonché l’indifferenza della gente locale, bollata come rozza, bigotta e immeritevole dei sacrifici dei soldati, scrive in una lettera ”tutte le notti sono allarmi e cannonate, la linea loro è ben fortificata e guardata, l’affare è piuttosto serio ma confidiamo nel nostro generale”. In effetti le condizioni di vita dei garibaldini in loco non erano delle migliori, la situazione era “alquanto penosa“ a causa della mancanza di tende, ricoveri, acqua e la febbre da malaria.

Un altro episodio fu quello relativo al fallito tentativo di abbordaggio del vapore borbonico Trasporto, avvenuto verso la metà di agosto. In tale occasione le barche cannoniere garibaldine partite dal Faro per prendere la nave, furono respinte dalle cannonate dei forti borbonici sulla sponda calabra e della pirofregata a ruote Fulminante. Nello stesso mese un nave inglese proveniente da Malta, carica di munizioni da trasportare in Calabria, fu cannoneggiata e presa dalle truppe borboniche. Non mancò un quasi incidente diplomatico, allorquando il 22 agosto le batterie del Faro fecero fuoco contro un piroscafo francese scambiato per nemico. Nello stesso mese la pirofregata a elica di I rango Borbone, cannoneggiò le posizioni nemiche coi suoi pezzi rigati e lisci a bomba di grosso calibro. Inoltre l’11 agosto era stato programmato, anche se mai attuato, uno sbarco borbonico presso Torre Faro con conseguente attacco alle postazioni.

In base a ciò i principali sbarchi garibaldini effettuati già i giorni 8 e 11 agosto presso la costa calabra, allo scopo di impossessarsi appunto dei presidi di Torre Cavallo e Altafiumara e consentire la partenza del grosso delle truppe rimaste in attesa, ebbero esiti non proprio positivi poiché o falliti oppure con successi parziali, data anche la presenza dei “vapori napoletani che in numero di cinque o sei facevano la più attiva sorveglianza e ricevevano chiunque a cannonate”.
Garibaldi dunque, con tutto l’esercito ormai raccolto in quel di Capo Peloro, convinto di passare facilmente in continente, dovette invece cambiare i piani e fu in sostanza costretto a sbloccare la situazione aggirando le posizioni nemiche e recarsi direttamente in Calabria, in un punto al di fuori dell’imboccatura meridionale dello stretto, luogo senza dubbio più facile per poter sbarcare. Infatti dopo essere tornato in Sicilia dalla Sardegna, per la quale era improvvisamente partito il 12 agosto su un preciso ordine di Vittorio Emanuele II, ritornò in loco il 18 per trasferirsi a Giardini Naxos e sbarcare il 19 presso Melito Portosalvo sulla costa ionica calabrese con circa 4000 uomini.

Ma ciò non fu una sorpresa per la marina borbonica poiché all’arrivo delle due navi garibaldine presso Melito, giunsero sul posto due pirofregate nemiche, le quali tuttavia non impedirono il ritorno verso Messina di una nave con a bordo Garibaldi che cercava soccorsi per l’altra nave che si era arenata sulla spiaggia, cannoneggiata dalle navi borboniche e incendiata da alcuni reparti appositamente sbarcati, mentre le navi bombardavano anche le camicie rosse sulla spiaggia, le quali insieme a quelle riuscite a sbarcare l’8 agosto a nord presso Cannitello e arrivate a Reggio, temendo uno sbarco in forze e la contemporanea reazione dell’esercito borbonico, si erano inizialmente sbandate.
Il 21 agosto fu presa Reggio dopo un aspro combattimento, quindi la notte tra il 20 e il 21 fu attuato lo sbarco delle truppe del col. brig. Cosenz, le quali partite da Capo Peloro a mezzo barche a remi disarmate, protette da cinque barche scorridore armate di un pezzo da 4, riuscirono a sbarcare in parte a Favazzina, tra Scilla e Bagnara. Anche questo sbarco, allo scopo di evitare il tiro costiero ed eludere la sorveglianza navale borbonica, dovette seguire una rotta più lunga per giungere in un punto della costa, questa volta posto fuori dell’ingresso settentrionale dello stretto, più sicuro e utile ad aggirare i presidi nemici. Ma anche in questo caso la marina borbonica con 4 navi tenutesi fuori dal tiro delle batterie di Faro entrate in azione, impedì la perfetta riuscita dell’operazione catturando poi 30 barche, vari marinai tra cui undici ufficiali e un comandante di divisione. Quindi quasi come una manovra a tenaglia le forze di Cosenz sbarcate a nord, dopo alcuni combattimenti con l’esercito regio si diressero verso sud per ricongiungersi con quelle di Garibaldi e Bixio atterrate a Melito e che avendo presa Reggio, stavano avanzando verso nord.

Le due colonne si incontrarono presso Campo Calabro, poco sopra Piale e Villa San Giovanni, luoghi ancora ben armati e presidiati dall’esercito borbonico, il quale nonostante gli sbarchi nemici mantenne anche il possesso dei forti e batterie di Scilla, Torre Cavallo e Altafumara sino al 24 agosto, giorno in cui si arrese senza combattimenti, mentre gli altri consistenti reparti borbonici che sorvegliavano la zona, avevano invece avuto alcuni contatti col nemico insieme a vari accordi e tregue.
Dopo un mese, una volta presi tutti i presidi sulla costa calabra, il controllo dello stretto da parte garibaldina poteva ritenersi completo, nonostante Garibaldi in una lettera del 30 luglio 1860 “manifestasse l’intenzione di passare sul continente prima del 15 agosto”.
Del resto lo stesso Garibaldi quattro anni dopo i fatti, durante un discorso a Londra, ammise che senza l’aiuto del governo inglese e dell’ammiraglio Mundy, non sarebbe stato possibile passare lo stretto di Messina.

Armando Donato
Vicepresidente CDS SICILIA

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