martedì 15 marzo 2011

Messina 150


L'intervento del delegato CDS Messina Armando Donato Mozer alla conferenza

Messina rappresenta, o dovrebbe rappresentare, nell’immaginario collettivo di ogni buon meridionale (intendendo per meridionali tutte le popolazioni dal Tronto a Lampedusa) uno dei momenti di maggior fierezza del nostro passato assieme, per volerci solo limitare al biennio 1860 – 1861, a Gaeta e Civitella. Tre momenti indimenticabili per quanti sono consapevoli della grandezza passata e dei torti subiti dai nostri padri che in quelle tre fortezze offrirono alla Patria la propria vita. Ovviamente si trattava della vera Patria (la terra dei propri padri) e non della nazione modernamente (o giacobinamente) intesa e incarnata da quel violento tentativo di unificazione che, dopo 150 anni, deve essere commemorato per decreto legge (sic!). Cosa dire di quegli uomini che offrirono la loro vita in nome di un mondo che, sconfitto già in Francia nel 1789, e nel 1830, e in Spagna nel 1835, stava cedendo il passo al nuovo ordine liberal – rivoluzionario anche nella penisola italiana.

Morti contro il risorgimento, questo andrebbe detto ai tanti soloni che oggi amano dire che festeggiare è obbligatorio per i tanti che sono morti per fare l’unità! Non ci piace il conteggio dei morti ma troppi sono morti per essersi opposti all’espansione piemontese, prima, durante e dopo quel maledetto 1861. Tra questi i soldati della fedelissima Real Cittadella di Messina occupano un ruolo di primo piano. Oltre cinquemila quelli che non si arresero e, a nome di tutti i siciliani rimasti fedeli alla monarchia borbonica (dopo i martiri di Bixio a Bronte anche gli inermi rivoltosi di Palermo del 1866 che la storiografia ignora) scelsero di resistere assediati da terra e da mare nella fortezza. Spinti alla resistenza dalle notizie che giungevano dal resto del regno, dove già soffiava il vento della rivolta popolare mentre Gaeta e Civitella resistevano e i due giovani Sovrani Francesco II e Maria Sofia sfidavano le bombe piemontesi, furono guidati da un valoroso ufficiale, il Generale di Brigata Gennaro Fergola intenzionato a rispettare fino alla morte il giuramento di fedeltà al sovrano. La fortezza di Messina resisté indomita e indomabile per sette mesi e mezzo. Questa straordinaria storia di vero patriottismo ed eroica abnegazione al proprio dovere ebbe inizio quando, il 27 luglio 1860 il pirata Garibaldi entrò a Messina con i suoi 2400 compagni di ventura. Francesco II, al di là di quello che disegnarono le critiche dei risorgimentalisti, ci aveva visto giusto.

Pochi avrebbero seguito il nizzardo che ancora non avrebbe potuto approfittare del sostegno diretto delle brigate di bersaglieri e militari piemontesi (cosa che invece avverrà dopo la rotta borbonica in Calabria) e l’ordine del Re fu quello di concentrare tutte le truppe disponibili attorno a Messina da dove sarebbe ripartita la riconquista dell’isola. Purtroppo non tutti gli ufficiali erano come Fergola e il piano non aveva previsto il tradimento. Il ministro della guerra Giuseppe Salvatore Pianell, ordinò a tutti i 15.000 uomini concentrati nella città di abbandonare l’isola per difendere il continente e, nonostante le proteste di molti ufficiali, non ci fu nulla da fare. Il comandante in campo delle truppe, generale Clary, fu costretto a ordinare la partenza ma diede disposizione a Fergola di resistere con 4000 uomini nella fortezza. A quelle truppe si aggiunsero poi gruppi di soldati che rifiutarono l’imbarco, guardie cittadine in fuga dalla città e numerosi volontari che portarono il numero degli effettivi agli ordini di Fergola a oltre 5000 borbonici. Abbastanza per tenere impegnati i garibaldini e per reagire all’occupazione, inefficaci per potersi muovere in mancanza di rinforzi. Garibaldi si imbarcò per la Calabria lasciando i suoi uomini ad assediare la fortezza poco meno di un mese dopo il suo ingresso in città.

Fino al mese di dicembre l’assedio fu, relativamente, “tranquillo” ma agli inizi di dicembre giunsero in Sicilia i primi reparti di piemontesi e parte della nuova flotta italiana (costituita in gran parte dalle navi borboniche che erano stati consegnati da ufficiali felloni e traditori all’ammiraglio piemontese Carlo Pellion di Persano, ovviamente dietro pagamento di grosse somme di denaro) e la musica cambiò. Anche dal mare cominciarono ad arrivare i colpi di cannone e l’assedio si fece maggiormente pericoloso. Alle palle di cannone si aggiunse la fame e Fergola chiese al Re il permesso di far uscire dalla fortezza i civili e i feriti per alleggerire il carico dei resistenti. La struttura della fortezza, a cinque punte fortificate, contribuì alla resistenza prolungata visto che ogni angolo e ogni lato del pentagono difensivo poté essere difeso con i cannoni napoletani. Ogni giorno il valore degli assediati fu dimostrato sul campo. Mai la resa divenne una opzione, nemmeno quando da Gaeta giunse la notizia della capitolazione della fortezza e della partenza del Re, che aveva abbandonato la città per risparmiare ulteriori lutti alla popolazione civile e all’armata decimata dalle bombe e dalla malattia. Il 12 febbraio 1861 Francesco II e Maria Sofia lasciarono per sempre il proprio regno in direzione di Terracina, a pochi chilometri dal confine, dove avrebbero poi raggiunto Roma per il decennale esilio romano. La capitolazione di Gaeta era attesa da ore anche in Sicilia.

Il Tenente Colonnello Guillamat aveva infatti lasciato la città dopo che Francesco II aveva comunicato la sua decisione e, con una piccola nave riuscì a raggiungere Messina per continuare la guerra. Fergola tenne un consiglio di guerra. Caduta Gaeta valeva la pena resistere? Per il soldato napoletano l’onore è tutto e nessuno volle abbandonare il campo. La sfida più grande cominciò nella seconda metà di febbraio quando giunse a dirigere l’assedio il generale Enrico Cialdini, il boia di Gaeta, il futuro macellaio di Pontelandolfo e Casalduni, l’uomo che oggi riesce a far apparire Gheddafi un "boy scout" alle prime armi. La galanteria militare non sapeva neanche cosa fosse, Cialdini, il quale portò con se i famosi cannoni rigati che cominciarono a sparare a tutto spiano, senza soste. Di fronte alla ferocia animale di Cialdini, Fergola non poté far altro che rispondere con il suo onore e la sua dignità. Scelse di continuare a combattere e con i suoi valorosi soldati tentò una disperata sortita nel tentativo di spezzare l’assedio.

Il tentativo finì nel sangue ma dimostrò ancora una volta la volontà combattiva degli assediati e il loro valore. L’undici febbraio, con ormai pochi proiettili e senza viveri, si aprirono le trattative. Nemmeno gli onori militari furono tributati ai 5000 di Messina. Ammainata la bandiera borbonica dal forte, i napoletani uscirono dal portone principale per andare verso il loro destino. Furono fatti sfilare disarmati sotto gli occhi dei “vincitori” mentre Cialdini, confermando la sua cattiva fama, ordinò (l’ingiustificato) arresto per gli ufficiali che avevano guidato la resistenza. Dispose la partenza immediata di tutta la truppa borbonica verso Genova dove sarebbero stati smistati nei tanti forti – prigione del Grande Piemonte, i famigerati lager dei Savoia. Furono salvati dall’azione diplomatica di Francesco II che, impressionato per la prolungata resistenza, ottenne l’intervento dell’imperatore di Francia, Napoleone III il quale riuscì a garantire, su navi francesi, il trasporto degli eroi di Messina Fergola, Cavalieri, Gaeta, Cobianchi, Granata, de Nunzio, Recco, Di Gennaro, De Martino, Lauria, Brath, Lamonica, Anguissola, Falduti, Marini, Colombo, Pagano, Guillamat, tutti scampati alla vendetta piemontese assieme alla maggior parte dei soldati che rientrarono come privati cittadini alle loro case. Molti di questi divennero “briganti” e proseguirono la loro battaglia per il Re Borbone. La bandiera bianca veniva ammainata dal forte. Cominciava l’esilio dei gigli di Napoli. Cominciava la via crucis delle Due Sicilie.

Roberto Della Rocca

fonte: http://istitutoduesicilie.blogspot.com/2011/03/messina-150-in-memoria-degli-eroi-delle.html

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