giovedì 4 marzo 2010

Il recupero delle artiglierie borboniche (La Gazzetta del Sud)



di Armando Donato, CSS Messina

Quella dei cannoni di Capo Peloro è una questione ben nota da molti anni. Si tratta infatti di artiglierie settecentesche in ghisa ad avancarica della Marina del Regno delle Due Sicilie poste in difesa costiera, quindi sabotate ed abbandonate sulla spiaggia come rottami già prima dell’arrivo delle truppe garibaldine.Il relativo periodo storico si rifà alle campagne di conquista francese (1800-1815) e la diretta minaccia alla Sicilia con navi e truppe appostate sulla sponda calabra. All’epoca l’area di Capo Peloro (Piazzaforte della Real Marina di Messina) con la torre del Faro era già campo trincerato retto da un colonnello, ricco di varie opere di controllo e difesa antinvasiva, presidiate da artiglieri siciliani e reparti inglesi.

La flotta Borbonica di Messina utilizzava unità capaci anche di 74 pezzi di artiglieria da 36, 24 libbre ecc. Molteplici i tentavi di sbarco e gli scontri navali con le unità francesi a Villa SG, Punta Pezzo, Bagnara, Scilla, Capo Peloro ecc. Il disarmo di navi da guerra e l’installazione delle artiglierie in difesa costiera era una pratica piuttosto frequente, infatti lo stemma dell’Armata di Mare e del rgt. Real Marina posto presso la cintura di volata di un cannone, insieme ai numeri a due cifre rilevati vicino ai tre rispettivi foconi, indicano l’originario armamento su unità navale borbonica, le cui artiglierie venivano contate progressivamente partendo dal basso.

Un corretto riutilizzo di cannoni non a caso mancanti di affusto (strumento di sostegno che ne consentiva l’alzo ed il tiro) non da campagna, ma alla marinara, tipico per pezzi di notevole stazza, presupponeva la presenza di maestranze specializzate, l’uso di specifici legni, munizionamento adeguato, prove e test. Impossibile inoltre per artiglierie di tal genere effettuare fuoco di copertura per ipotetici sbarchi garibaldini in Calabria, in primis perché essi avvenivano per sicurezza sempre di notte, rendendo quindi cieca l’azione di fuoco, in secondo luogo perché i cannoni come quelli di C. Peloro, aventi gittate massime di circa 1000 metri, mai avrebbero potuto proteggere teste di sbarco garibaldine in un’ area in cui la sponda opposta dista notoriamente 3000 metri e più.

Tuttavia è palesemente inverosimile un qualsiasi uso attivo di tali cannoni da parte garibaldina, tanto evidenti sono le palle conficcate ed incastrate a forza all’interno di tutte e tre le bocche, irrimediabilmente ostruite. Ciò non è un caso bensì un chiaro segno di autosabotaggio, ovvero tipica azione effettuata dai militi che abbandonando una postazione e relative artiglierie non trasportabili, le rendevano inservibili al nemico. Nel caso specifico le truppe borboniche evacuarono le postazioni di C. Peloro il 26 luglio 1860. Nessun riutilizzo garibaldino dunque, trattandosi già di relitti inservibili ed in abbandono, usati come bitte dai pescatori locali in tempi più recenti.

Armando Donato

Si ringraziano:
La Gazzetta Del Sud, Giovanni Arigò, Salvatore Cavalli, Vincenzo D’Amico
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