La “casetta” di Pizzo Lisciannaro nell’Isola di Marettimo. In lontananza, sul fondo, visibile il Castello di Punta Troia. Fonte: Archivio Associazione A.C.S.R.T. - Marettimo
MARETTIMO (TP) - Semaforo o Telegrafo? Nella dualità del suo nome va riscritta la storia di un vecchio edificio sito, a 515 metri di altezza, su un piccolo pianoro della montagna dell’Isola di Marettimo, poco al di sopra di Pizzo Lisciannaro.
“Fabbricato nel 1888, per incarico del Genio Militare di Palermo, dall’impresa palermitana Costruzioni Sciortino-Oliva [,] nel 1912, a causa dei cattivi risultati conseguiti per la fitta nebbia, l’Autorità Militare Marittima sgombrò e abolì da quella pittoresca vetta il “semaforo”, lasciando, da quell’epoca ad oggi, l’immobile completamente abbandonato, in balìa di se stesso e di tutte le intemperie…”. Così recita un passo del libretto di P. E. Duran “Una perla in fondo al mare, sintesi storica-politica-sociale dell’Isola di Marettimo”, edito a Genova nel 1928, attestando sul ruolo di semaforo la funzione svolta da quell’edificio. E così è stato creduto fino ad oggi.
Il recente rinvenimento di alcuni decreti, firmati durante il periodo borbonico (1734 – 1861) da Ferdinando I e Ferdinando II, associati ad altri documenti dell’Ottocento e a una testimonianza scritta di Padre Zinnanti Regio Cappellano della Real Chiesa di Marettimo fino al 1912, ha portato, però, alla identificazione di un “telegrafo ottico”, costruito sullo stesso sito poco dopo il 1816. È, pertanto, ragionevole pensare che la costruzione, di cui fa cenno Duran, si riferisca non a una nuova costruzione, ma alla ristrutturazione di una vecchia torre (o casolare) preesistente, parte integrante di un vecchio telegrafo.
Cerchiamo di completare l’asserto con qualche cenno storico, premettendo nello stesso tempo una distinzione chiarificatrice tra i termini “semaforo” e “telegrafo”:
* semaforo è un posto di vedetta e segnalazione, per lo più in prossimità del mare, non organizzato in rete, predisposto a trasmettere segnali codificati;
* telegrafo è una stazione abilitata a trasmettere e ricevere con stazioni multiple successive, quindi organizzate in rete, non solo segnali codificati, ma anche segnali corrispondenti, in un conveniente codice, alle lettere dell’alfabeto, alle cifre e ai segni di interpunzi
A partire già dai primi anni dell’insediamento dei Borbone nel Mezzogiorno d’Italia, le aree costiere siciliane furono interessate da una rete di “stazioni di osservazione”, dislocate a breve distanza tra loro, con il preciso intento di avvistare e comunicare le frequenti e rapide incursioni della marina piratesca, che aveva le sue basi nelle vicine coste della Tunisia e dell’Algeria. Questi “semafori” erano in grado di trasmettere e ricevere solo segnali convenzionali, del tipo “nave nemica”, “incendio a bordo” e così
via. Verso la fine dello stesso secolo, il Settecento, a seguito dell’invenzione da parte del francese Claude Chappe del “telegrafo ottico”, i semafori furono convertiti in telegrafi ottici, abili a trasmettere non solo segnali convenzionali come quelli dei semafori, ma anche segnali rappresentativi di lettere numeri e segni, generando di fatto una rete di trasmissione e ricezione a distanza di testi, definita pertanto “telegrafica”, in accordo con il neologismo “telegrafia”, coniato dallo stesso Chappe.
Il telegrafo ottico di Chappe essenzialmente consisteva in un apparato costituito da due braccia mobili, incernierate alle estrenità di una traversa, a sua volta collegata centralmente all’estremità superiore di un’alta torre. Con opportuni rinvii meccanici, su comando manuale dal basso, i tre bracci potevano assumere posizioni angolari diverse, per un totale di “n” combinazioni, a cui si facevano corrispondere messaggi convenzionali, lettere dell’alfabeto, numeri e segni. Le braccia erano nere per assicurare un alto contrasto con lo sfondo del cielo. Al sistema veniva associato un telescopio, che allineato su un altro semaforo, identificava il segnale trasmesso. La novità dell’invenzione di Chappe non risiedeva tanto nella tecnica del “telegrafo” e nel suo impiego, quanto nel codice elaborato dallo stesso Chappe. Questo codice consisteva in un vocabolario di ben 92 pagine, ciascuna delle quali contenente 92 termini. Il protocollo di trasmissione prevedeva un primo segnale emesso, indicante la pagina di riferimento del vocabolario, e un secondo, legato al numero identificativo della
parola usata nel dispaccio e contrassegnata nella pagina stessa. In questo modo con una associazione di soli due segni si ottenevano 92 x 92 (8464) combinazioni, corrispondenti ad altrettanti messaggi a senso compiuto. Il messaggio poteva essere trasmesso solo di giorno e in condizione climatiche favorevoli.
Il sistema fu considerato subito molto innovativo dalla Francia di fine settecento e, anche se costoso e un po’ artificioso, divenne essenziale per il paese. Napoleone ne fu entusiasta e diffuse il telegrafo Chappe non solo su tutto il territorio francese, ma anche su quelli europei in cui esercitava la sua influenza. Anche l’Italia ebbe la sua rete di telegrafi ottici. Il modello Chappe fu applicato in Piemonte, Lombardia e altre regioni del Nord Italia, mentre nel Mezzogiorno, sotto il controllo dei Borbone, si diffuse il telegrafo ottico di Depillon, un modellopiù semplice e più pratico di quello di Chappe. Tale sistema, che funzionava con la movimentazione di tre braccia (o aste), venne installato a partire dal 1812 in dipendenza dal “Corpo Telegrafico Militare” della Real Marina del Regno delle Due Sicilie. Parimenti al modello di Chappe le tre ali segnalatrici venivano azionate manualmente da un “segnalatore”, posto alla base del palo telegrafico, ruotando dei volanti: la posizione assunta da ogni braccio corrispondeva ad un numero e l’associazione dei tre numeri dava come risultato una cifra che rinviava, nel “vocabolario telegrafico”, a una frase ben precisa, a lettere o a segni. Il segnalatore della postazione traguardata, dotato di un telescopio, trasmetteva a sua volta il messaggio a un altro telegrafo. Si potevano trasmettere fino a 342 diversi messaggi: il numero “143”, ad esempio, indicava letteralmente “Le vele scoperte sono da guerra”, ovvero che le navi avvistate al largo non erano mercantili ma militari.
Il telegrafo ottico a Marettimo venne costruito su decreto del Re Ferdinando I di Borbone (già Ferdinando IV), emesso il 14 settembre 1816; e comparve, nel 1818, tra “i posti telegrafici esistenti in Sicilia” - insieme a quello di S. Caterina a Favignana - elencati in una pubblicazione delle Ordinanze Generali della Real Marina del Regno delle Due Sicile. Questi documenti, però, non forniscono alcuna indicazione sulla località in cui il telegrafo venne realizzato. L’indicazione ci perviene, invece, dal Portolano dei Mari Mediterraneo e Adriatico, compilato dal Cav. Luigi Lamberti nel 1871, che, alla voce “Isola di Marettimo”, riportando l’espressione “… a levante del telegrafo che si vede in mezzo all’isola …” non lascia dubbi sulla identificazione dell’odierno edificio con quello descritto dal compilatore.
Nella Guida Statistica su la Sicilia e sue isole adjacenti, redatta dall’idrografo Francesco Arancio nel 1844, Marettimo non compare più come sito di una stazione telegrafica; il dato è confermato da una “Mappa delle linee telegrafiche del Regno delle Due Sicilie”, risalente al 1860, e ritrovata recentemente a Messina. Probabilmente la decisione fu presa per le difficoltà di collegamento e di approvvigionamento dell’Isola nei mesi invernali.
Dopo l’Unità d’Italia, verso il 1870, per il sopraggiungere della “telegrafia elettrica” via filo, nella riorganizzazione generale del sistema delle comunicazioni, i telegrafi ottici furono sostituiti con sistemi elettrici e molti di quelli dislocati lungo le coste e le isole disagiate furono trasformati in semplici semafori, predisposti per la sorveglianza del mare e per la diffusione delle condizioni meteo alla navigazione, associandosi alle funzioni svolte dai fari.
Stralcio della mappa
delle linee telegrafiche
del Regno delle Due Sicilie,
risalente al 1860, rinvenuta a Messina.
Fonte: Archivio Davide Cristaldi
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I castelli di Punta Troia e di S. Caterina, parzialmente distrutti dopo l’invasione dei rivoltosi del 1860, cessarono la loro funzione di carceri. Santa Caterina continuò a svolgere la funzione di telegrafo all’interno della rete telegrafica di pertinenza del distretto compartimentale della Sicilia occidentale, mentre il castello Punta Troia fu destinato all’abbandono. In seguito, come testimonia Padre Zinnanti (vedi: Sacerdote Mario Zinnanti Cenni storici delle Isole Egadi Tip. G.Genovese, Monte S.Giuliano, 1912, pag. 18), vi fu impiantata “una stazione semaforica di vedetta con comunicazione telefonica col semaforo di Monte Lisandro [Pizzo Lisciannaro], in cui un tempo esisteva il telegrafo ad asta comunicantesi con quello di Santa Caterina in Favignana”
Da quest’ultima testimonianza emergono tre dati significativi:
il primo riferito alla preesistenza di un semaforo situato a Monte Lisandro alla data di pubblicazione del libretto;
il secondo legato alla realizzazione di un semaforo all’interno del Castello di Punta Troia e di un collegamento telefonico tra detto semaforo e Monte Lisandro, la cui data non è espressa, ma è presumibile che ricada sotto il terzo governo Giolitti (1906-1909), come lo stesso Zinnanti fa intuire con la sua puntualizzazione “… sotto il nostro Governo …” quando vuole caratterizzare temporalmente quell’evento; (la decisione di realizzare un’altra vedetta a Punta Troia verosimilmente si legava alla necessità di controllare una più vasta area marina, allora battuta dalla marineria turco-ottomana; infatti le mire espansionistiche giolittiane verso il Nord Africa suggerivano quei preparativi strategici che già preludevano alla guerra di Libia, regione allora controllata dall’impero ottomano);
il terzo correlato alla pregressa attività, nel pianoro di Monte Lisandro, di un “telegrafo ad asta”, nome comunemente dato, allora, al telegrafo ottico modello Depillon.
Pertanto, l’esistenza del telegrafo ottico a Marettimo, accertata attraverso i decreti di Ferdinando I e Ferdinando II , il Portolano di Luigi Lamberti e la testimonianza scritta di Padre Zinnanti conducono alla inequivocabile identificazione di un “telegrafo ad asta” nel pianoro sovrastante il Pizzo Lisciannaro dell’isola di Marettimo, ancora prima del 1888, che l’unica informazione conosciuta oggi, quella del Duran, considera come anno di prima realizzazione del vecchio fabbricato.
Degli oltre cento telegrafi ottici, modello Depillon, sparsi lungo tutta la costa siciliana per opera dei Borbone, oggi sono rimaste pochissime tracce. Si annoverano solo quelli di Riposto (CT), di Porto Empedocle (AG), di Noto (SR). Il decadimento, la trasformazione, l’oblio hanno cancellato la conoscenza di quell’evento tecnologico originario che segnò l’inizio della moderna era delle telecomunicazioni. Per quasi tremila anni la velocità massima di trasmissione di un messaggio era rimasta ferma a quella del cavallo. Con la discontinuità tecnologica di Chappe, nel giro di pochi decenni, quella velocità avrebbe raggiunto il suo valore massimo, quello della luce.
Vogliamo ora dare un nome al nostro sito? Sia ‘u Telegrafo! Nel rispetto della priorità del tempo e del valore della scienza.
Emilio Milana
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