Nel frattempo Berlusconi annuncia la maggioranza in parlamento per il
14 ottobre.
Nei giorni scorsi avevamo trattato delle lotte intestine tra centrodestra e centrosinistra per il controllo del comparto logistico della Sicilia.
Il ministro Bianchi con un ordinanza ha bloccato in maniera unilaterale l'autostrada A3 Salerno-Reggio C. all'altezza di Bagnara Calabra, senza preoccuparsi di indicare/realizzare prima una via alternativa valida a tutti coloro che utilizzano tale importante arteria per i loro scambi economici, ma anche per il turismo oltre che al traffico ordinario.
Il centrodestra, attualmente maggioranza in Sicilia fino ad ora aveva esitato, temendo rotture di equilibri, a prendere provvedimenti definitivi nei confronti delle petrolifere anglo-americane, legate al centrosinistra, per bloccare le trivellazioni nel Vallo di Noto.
E' arrivata la prevista ritorsione, per cui la giunta regionale siciliana presieduta da Salvatore Cuffaro ha approvato in via definitiva il disegno di legge che vieta le trivellazioni e ogni nuova attivita’ estrattiva e di raffinazione sull’intero territorio regionale; probabilmente questa notizia non avrà l'eco che merita.(vedi notizia)http://www.imgpress.it/notizia.asp?idnotizia=28344&idsezione=1http://www.stato-oggi.it/archives/00071172.html
Nel frattempo la Sicilia continua a catturare forti interessi economici, infatti è notizia fresca l'apertura nel 2008, nei pressi di Noto, della più grande centrale fotovoltaica d'Europa, con una potenza effettiva di 40 Megawatt, grazie all'investimento della LESS, di cui sono azionari i Gruppi Marini e Belleli.Quest'ultimo possiede sia il 60% delle azioni LNG MedGas, società che dovrebbe costruire il rigassificatore di Gioia Tauro sia il 25% di Olt Lng Toscana proprietaria del costituendo rigassificatore off-shore di Livorno.Dunque in Sicilia fanno i "puliti" ed altrove fanno i terminal del GNL?Questo significa che il centrodestra è riuscito a fare della Sicilia una propria roccaforte, tanto da rendere diversa la linea politica nazionale rispetto a quella regionale.Ma tutto ciò potrebbe non bastare a Berlusconi che in Sicilia ha investito parecchio politicamente(ma anche economicamente...) perchè teme nuovi "sinistri" colpi di cannone alla fortezza siciliana, così durante la conferenza del partito Democrazia Cristiana per le Autonomie di Rotondi, annuncia la maggioranza del centrodestra in parlamento per il 14 di ottobre e di tenersi pronti per nuove elezioni.Il motivo ufficiale sarebbe la defezione di componenti della Margherita, i quali non aderendo al nuovo Partito Democratico passerebbero al centrodestra, ma noi pensiamo che in realtà la maggioranza in Parlamento l'ha già acquisita grazie a Mastella che ha nuovamente tradito la coalizione di appartenenza e si accinge a risaltare il fosso.
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venerdì 28 settembre 2007
giovedì 27 settembre 2007
Ciò che non riuscì agli inglesi, riuscì a Prodi
Nel 1848, con la scusa dei Moti Rivoluzionari, gli inglesi tentarono di staccare la Sicilia dal regno borbonico, per farne una delle tante colonie del Commonwealth: il tentativo fu fortunatamente bloccato dal sovrano Ferdinando II di Borbone.(vedi documento)Due gravi attacchi sono stati perpretati ai danni della Sicilia e buona parte delle Calabrie, ma in tv assistiamo alle solite polemiche tra centrodestra e centrosinistra, che non portano a nulla.Il governo di sinistra, come già anticipato in altri editoriali sta tentando disperatamente di bloccare lo sviluppo del comparto logistico della Sicilia, che grazie al nuovo assetto strategico dell'economia euro-mediterranea sta velocemente riaquistando una primaria importanza.
E' notizia di questi giorni che il Governo di Prodi ha ordinato la chiusura quasi totale dell'Autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Bagnara Calabra per il rifacimento di una galleria.Inoltre è stato proposto, al fine di "alleviare" l'estremo allungamento del tempo di percorrenza, di modificare la rotta dei traghetti in partenza da Messina, fino alla lontana Gioia Tauro(RC), anzichè Villa S.Giovanni, aumentando in maniera improponibile il tempo per passare dalla Sicilia al Continente.A ciò si aggiunge l'assurda politica dei tagli alle FS che penalizzano fortemente la Sicilia, infatti è stato preannunciato che i treni non potranno essere più trasportati sui traghetti delle Ferrovie dello Stato.Dunque i siciliani dovranno scaricarsi le valigie a Messina, traghettare a piedi e risalire sul treno, nelle Calabrie.Il centrosinistra pur di far un torto al centrodestra nell'eterna lotta per il controllo della Sicilia, vuole fare dell'Isola una specie di enorme campo di concentramento.Come faranno tutte quelle aziende agricole siciliane a trasportare i loro prodotti al nord via strada?Non arriveranno mai in tempo nei grandi mercati del nord senza che la merce non si deperisca.Oltretutto il trasporto aereo siciliano(l'unica soluzione valida) è ancora debole e se oggi esiste la compagnia aerea siciliana WINDJET del Multi-Presidente[1] Nino Pulvirenti , che pur avendo un traffico da 1 milione di passeggeri[2], non ha ancora un supporto politico tale da gestire in maniera sovrana le proprie scelte economiche.Mentre l'aeroporto di Comiso(RG) nel cuore della Sicilia agricola, sarà pronto solamente il prossimo anno ma per la piena operatività ce ne voglionosempre di più.Sarebbe una soluzione migliore l'acquisto di ALITALIA da parte della compagnia aerea di stato russa Aeroflot.In questo caso Nino Pulvirenti sarebbe immune da ritorsioni padane nei confronti della propria compagnia di linea ed inoltre potrebbe gestire in maniera più "autonoma" le relazioni esterne del Calcio Catania: ovvero mandando a quel paese i giornalisti della stampa padana.
[1]E' anche proprietario del Catania Calcio, squadra chiacchieratissima dai media nazionali per via dell'omicidio Raciti, ma probabilmente ucciso da "fuoco amico" come emerge dalle ultime indiscrezioni, ma che non hanno impedito la demonizzazione della città etnea rendendo una pessima ed ingiusta immagine all'esterno. Catania da anni ha sofferto il soffocante peso della mafia e solo adesso cominciava un pò a respirare.
[2] Fonte: http://www.windjet.it/
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mercoledì 26 settembre 2007
Ritagli di una rivolta
Palermo, 16 settembre 1866
Le mie ricerche "in internet" su tutto quanto riguarda e/o possa riguardare l'occupazione " a mano armata" del Regno delle Due Sicilie , mi hanno portato a conoscere "fatti" che la storiografia ufficiale da quella dell'epoca fino a quella attuale , si è ben guardata dal rendere noto.
Attualmente dette ricerche mi hanno portato in Sicilia " gioia e dolore" del Regno delle Due Sicilie, Purtroppo gli archivi storici siciliani di quel tempo " guarda caso" sono andati distrutti nel corso degli anni o non sono consultabili per chi non è storico di professione, quindi interamente dedicato a ricerche storiche con profusione di tempo e soldi.
Purtroppo fino a quando questa "Rivoluzione Storico-Culturale" non sarà possibile, sta a noi genitori, a noi lettori, a noi frequentatori dell'Internet, cercare, documentarsi e diffondere tutto quanto venga a nostra conoscenza
cominciando a dire e smentire che " il famoso grido di dolore che si leva verso di noi" declamato da Vittorio Emanuele II il 10 gennaio 1859, NON C'E' MAI STATO, c'è stato invece il pressante invito dei massoni (Garbaldi & C.), degli anticlericali (Il Regno delle Sue Sicilie era cattolicissimo), gli avventurieri (Garibaldi), i sognatori ( i Siciliani che credettero nelle promesse di Cavour e Garibaldi, per poi pentirsene amaramente), i traditori e gli Ignavi ( i Baroni e la nobiltà siciliana), e al di sopra tutti l' INGHILTERRA, ma questa è un'altra storia che vi racconteremo più avanti.
Voglio sottoporvi, una delle pagine più sanguinose vissute dai siciliani, e cioè la rivolta di Palermo, detta anche del Sette e Mezzo(come i giorni che durò) appena pochi anni dopo l'Unità (si fa per dire) d'Italia.
a cura di Pino Marinelli
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Tratto da " Il Brigantino - Il Portale del Sud
La rivolta del " 7 e mezzo" di Fara Misuraca
microbiologa e appassionata di storia, che vive e lavora a Palermo
"Una tinta (*) mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi (*), i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo (*) che le cavallette, vennero arrisbigliati (*) di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio (*) di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri,(*) Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri (*) nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata (*), scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia (*) di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia". (Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Edizioni Rizzoli - La Scala)
Così molto coloritamente Camilleri descrive l’inizio del “Sette e mezzo”. La rivolta davvero fu iniziata da squadre di contadini, circa 3 o 4000 uomini, provenienti dalle campagne circostanti Palermo. Erano guidate in buona parte da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa garibaldina del 1860. Una volta entrati in città, nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866, rapidamente riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila uomini in armi, e certamente se all’inizio essa fu indubbiamente una manifestazione esplosiva di malcontento e di protesta popolare la sua rapida diffusione la massiccia partecipazione furono certamente opera di una concertazione, da tempo preparata, di alcune forze politiche. Il mescolarsi della spontaneità popolare con la rivolta organizzata fu favorito dalla situazione economica disastrosa, come detto in precedenza, e dallo scoppio della terza guerra d’indipendenza che stava mostrando la debolezza dello stato savoiardo in seguito alle sconfitte di Custoza e di Lissa. La capacità di controllo della classe liberale che aveva appoggiato Vittorio Emanuele era ormai deteriorata, e non solo in Sicilia. Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Tuttavia Mazzini, tanto per cambiare, se ne dissociò e addirittura la criticò. Essendo a conoscenza delle intenzioni dei repubblicani di Palermo, qualche mese prima (a conferma della lunga preparazione della rivolta) aveva scritto “un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…” (Mazzini a Bagnasco in “Il precursore” Palermo 31 luglio 1865) e forse a pensarci bene non aveva torto.
La caratteristica peculiare della rivolta del 1866 fu in ogni caso la contemporanea partecipazione della destra estrema e della sinistra. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta.
Per sette giorni e mezzo Palermo restò in mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). E solo in seguito all’impiego di 40.000 soldati e soprattutto dei bombardamenti all’americana ordinati dal generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Si contarono miglia di morti e migliaia di prigionieri, ma non cifre ufficiali, forse il nuovo stato unitario se ne vergognava.
Non solo questo però possiamo leggere in questa rivolta. Non meno importante è la sua valenza politica. Possiamo infatti affermare che ha avuto un ruolo nella formazione della classe politica italiana, in particolare nella storia della sinistra italiana.
Il sette e mezzo, o meglio la parte di sinistra del sette e mezzo nasce dalla crisi del partito d’azione, dopo le sconfitte garibaldine in Aspromonte. L’evento portò il mazziniano Crispi, ad optare per la monarchia “la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe” e questo strappo verso la destra fece nascere una sinistra intransigente ed estremista che guidata da persone come Friscia, Corrao, Bonafede, continuarono a lottare per l’ideale repubblicano, questa gente si staccò ben presto da Garibaldi e Mazzini e cercò, con poca fortuna, di agire da sola.
Bakunin, che fu critico verso questi personaggi, non può tuttavia fare a meno di considerare il Mezzogiorno come luogo d’elezione per una rivolta del proletariato, perché terra ricca di emarginati, poveri ed oppressi. Non c’era alternativa: o briganti (e quindi mob) o rivoluzionari (estremisti sia della destra legittimista che di sinistra).
L’insurrezione fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e non solo in Sicilia. Fu ordinata, su proposta di Mordini, la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono miglioramenti, si soffocò, si andò avanti e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi “non” ne raccogliamo i frutti …
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Ricostruzione storica della rivolta di Palermo, o del / e mezzo, fatta da: ORAZIO FERRARA
Orazio Ferrara, è nato a Pantelleria (1948), Scrittore e saggista, vive a Sarno in provincia di Salerno:
16 - 22 settembre 1866
Le sette giornate di Palermo
Il no siciliano alla piemontesizzazione
di Orazio Ferrara
Gli anni immediatamente successivi alla cosiddetta "Unità d'Italia" videro la Sicilia solo marginalmente interessata da quel fenomeno di massa della resistenza armata contro i "Piemontesi", che, sotto la guida dei legittimisti, divampava, con accenti epici, in tutte le altre regioni meridionali. Ciò perché ancora bruciava ai Siciliani la mancata comprensione della loro "specificità" da parte dei passati governi borbonici. Però, man mano che cadevano ad una ad una tutte le illusioni sorte con la venuta delle rosse camicie di don Peppino Garibaldi, montava la collera degli strati popolari. E così anche la Sicilia non mancò a quel tragico appuntamento con la Storia, pagando il suo non lieve contributo di sangue alla Resistenza meridionale. .
Le sette giornate della rivolta di Palermo del settembre 1866 furono la testimonianza tangibile di una cosiddetta "unità nazionale", malamente perseguita e peggio attuata. Manco a farlo apposta i più decisi tra i rivoltosi furono proprio i "picciotti", che sei anni prima avevano permesso le "strepitose" vittorie di Garibaldi. Essi furono i più determinati nella lotta perché erano stati traditi nel peggiore dei modi: nella loro buona fede. La politica perseguita in Sicilia dal governo italiano, o per meglio dire sabaudo, fu in quegli anni veramente miope, sciocca e, non ultima, violenta. La verità è che, come scrive Paolo Alatri (Lotte politiche in Sicilia, Torino 1954): "I funzionari, per lo più settentrionali... consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari... Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo d'antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l'introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocò l'impossibile: l'alleanza tattica dei gruppi filoborbonici con i circoli del radicalismo democratico, cioè l'ala oltranzista del vecchio partito filogaribaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti, componenti politiche quest'ultime perennemente presenti nella storia dell'isola".
L'originalità di questa alleanza, che fuoriesce da tutti gli schematismi abituali, la dice lunga su quale laboratorio politico di prim'ordine fosse in funzione in quel momento in Sicilia.
Ed è in questa originalità che vanno ricercati sia il principale punto di forza della rivoluzione (perché di vera e propria rivoluzione si trattò, anche se limitata a Palermo e al suo circondario) per la partecipazione corale, senza divisioni, dell'intera popolazione, sia il principale punto di debolezza per l'intrinseca mancanza, per ovvi motivi, di un'unica e coerente direzione politica e quindi di idonei quadri, cosa che determinò alla fine la sconfitta generale di tutti i rivoluzionari.
La repressione che seguì fu talmente barbara da far registrare un numero di vittime di gran lunga maggiore di quello avutosi nella fatidica guerra di "liberazione" garibaldina del 1860. Ma la cosa peggiore fu come al solito il tentativo, riuscito perfettamente per l'imperante servilismo della storiografia ufficiale, di infangare la memoria storica degli sconfitti. Vecchio male nazionale. Così se i combattenti legittimisti del Napoletano, della Lucania, delle Calabrie e delle Puglie non erano stati altro che briganti e banditi da strada; per i Siciliani del '66 ci si inventò l'accusa di essere stati parte integrante di un più vasto disegno criminoso, ordito dall'onnipresente Mafia. Fervida fantasia quella dei politicanti dell'Italia post-unitaria! Ed è così che quel1e tragiche giornate del settembre 1866, che avevano visto versare tanto generoso sangue siciliano, passarono nei libri di testo, fino in tempi a noi recenti, come " un episodio di malandrinaggio collettivo". Ci sono voluti storici seri, non corrivi alla solita retorica patriottarda, affinché ultimamente si facesse un po' di luce.
L'insidioso teorema per cui vi era perfetta coincidenza d'intenti tra i cospiratori siciliani e i mafiosi, anzi che si era in presenza di un tutt'uno, fu elaborato e portato avanti con tempestività dal prefetto palermitano del tempo, Gualtiero, in tutta una serie di rapporti al governo, probabilmente su imbeccata di quest'ultimo.
Particolarmente preso di mira, nei citati rapporti, "l'ibrido connubio" tra gli oltranzisti del vecchio partito garibaldino e i filoborbonici.
Il teorema precedé la stessa fase rivoluzionaria, infatti se ne ebbe un primo rozzo abbozzo allorché il Gualtiero cominciò a rendersi conto del1'avvenuta saldatura tra le diverse anime antipiemontesi della Sicilia, dagli indipendentisti ai legittimisti, e di conseguenza dell'ormai inarrestabile onda montante della collera popolare. A nulla valse per il governo l'aver ordito l'infame assassinio del generale Corrao, accusato di tessere i legami tra le diverse componenti, così come a nulla valse l'ulteriore arresto di Giuseppe Badia, succeduto al Corrao. La Sicilia ribolliva sempre più di cospiratori. A questa impotenza si trovò il palliativo di rispondere con nuovi rapporti prefettizi tendenti a rappresentare tutta l'opposizione politica semplicemente come un'organizzazione di tipo malandrinesca. Ecco dunque il partito della mafia avverso ai "piemontesi", che andava combattuto con qualsiasi mezzo, dalla delazione alla tortura, trattandosi di contrastare una truculenta associazione a delinquere.
Se all'inizio questo subdolo teorema fece prendere soltanto delle grosse cantonate al governo italiano (d'altronde ispiratore dello stesso Gualtiero) per cui subì una clamorosa disfatta iniziale in quel di Palermo, dove popolani male armati ebbero per giorni la meglio su una numerosa truppa addestrata, esso si rivelò poi assai utile e prezioso nella fase successiva, a rivoluzione fallita, quando si trattò di imbonire l'opinione pubblica italiana e quella internazionale sulla necessità di una dura e persistente repressione, come se non fosse già bastato, a seguito di vili ordini, il crudele cannoneggiamento della città da parte della flotta italiana. Per molto meno Ferdinando II di Borbone si vide affibbiare l'epiteto di Re Bomba.
La repressione esitò infine nel tristissimo fenomeno dell'emigrazione, dissanguando così la Sicilia dei suoi figli più intraprendenti.
Eppure è stato documentato da storici imparziali che molti di quei capipopolo e gran parte dei picciotti delle squadre armate, fatti passare per mafiosi e manutengoli dei Barbone, avevano un passato di tutto rispetto in nome dell'unità d'Italia. In pratica erano le stesse squadre e i medesimi capi che nel 1860 avevano permesso la tranquilla passeggiata di don Peppino Garibaldi in terra di Sicilia. Senza il loro determinante apporto il rossiccio generale avrebbe certamente assaporato di qual gusto amaro sapessero le salse acque del mare siciliano. Ad essi la parte più stolida della storiografia piemontese riservò la degradazione "da tutti eroi a tutti mafiosi"; dimenticando i veri mafiosi di cui si erano effettivamente serviti i Mille come quel Badalamenti, inteso 'u zu Piddu Ranteri, così descritto da Antonio Cutrera nel suo "La mafia e i mafiosi" (Palermo 1900): "... capraro facinoroso e mafioso, al quale dolevano ancora le piante dei piedi, per le vergate avute dalla polizia borbonica, per costringerlo a confessare certi peccati da lui commessi, tutt'altro che politici". Il Cutrera è scrittore filogovernativo al 100%, tanto che per farsi perdonare il suo piccolo peccato veniale aggiunge subito dopo, nella stessa pagina: "Venne il 1866: la mafia e la feccia della società, spinte dagli elementi sovversivi, repubblicani, borbonici e clericali, sotto pretesto di volere una libertà maggiore, a foggia repubblicana, provocarono una settimana di rivolta civile in Palermo". E' il teorema Gualtiero passato nelle pagine di uno storico.
Ma torniamo alle tragiche giornate palermitane del settembre 1866.
Tralasciamo i soliti pennivendoli, anche storici di fama, che hanno rivalutato con studi seri i moti palermitani, analizzando ed evidenziando la corale partecipazione popolare, hanno però svilito la cosa, riducendo il tutto ad una mera ribellione delle classi subalterne contro la miseria e contro l'oppressione delle classi dominanti. In quest'ottica va visto il grosso risalto dato, da questi storici, alla componente radicale a sfondo socialistica dei rivoltosi, con un certo spazio anche alla corrente autonomistica, ignorando quasi del tutto quella indipendentista, e ciò la dice già lunga sulla loro reale obiettività. (...)
Sulla reale consistenza della partecipazione dei legittimisti borbonici alla rivolta palermitana è certamente più sincero lo storico inglese Denis Mack Smith, che, nel 3° volume della sua "Storia della Sicilia medievale e moderna" (Bari 1976), scrive al riguardo: "Ancora più pericolosi, all'altro estremo, erano i conservatori nostalgici dei Borboni: nel 1862 alcuni parlamentari siciliani avevano già in corso dei negoziati segreti con l'ex re borbonico... ".
Le scintille, innescanti il fuoco della sommossa, furono come al solito occasionali. Furono le ottuse limitazioni imposte alle popolarissime feste di S. Rosalia, la santa patrona cara al cuore di ogni palermitano, e l'introduzione del monopolio statale del tabacco con la fine dell'esenzione goduta fino allora in Sicilia. Rapidamente divampò la protesta degli strati più popolari e si ebbero i primi disordini. Era ciò, che aspettava da tempo il Comitato rivoluzionario con le sue squadre clandestine già allertate, anche perché i reparti militari di stanza nell'isola erano profondamente demoralizzati per le recentissime disastrose sconfitte subite al nord dall'esercito italiano nella guerra contro l'Austria.
Fin dall'inizio delle operazioni la conduzione dell'ala militare del Comitato fu impeccabile, se a ciò avesse corrisposto un'uguale capacità e sagacia dell'ala politica le cose sarebbero forse andate diversamente. Si cominciò dal controllo del circondario, facendo poi convergere tutte le squadre su Palermo. Si ripeteva la tattica del '60, questa volta però contro "i piemontesi".
Toccò per prima a Monreale, dove un'intera compagnia di granatieri, che spalleggiava l'odiato Delegato di P.S. Rampolla, fu letteralmente fatta a pezzi insieme a quest'ultimo. La scena si ripeté a Boccadifalco con lo sterminio di un reparto di "carabinieri piemontesi". A Misilmeri al termine della giornata campale la truppa si ritirò, lasciando sul terreno ben 27 morti. Infine, come fossero un sol uomo, tutti i centomila contadini della Conca d'Oro insorsero. I più decisi, armati di vecchie scoppette da caccia, si unirono alle squadre e marciarono su Palermo, al loro seguito centinaia di carri carichi di vettovaglie.
Il controllo militare delle campagne circostanti era considerato un primario obiettivo nei disegni strategici del Comitato, in quanto doveva permettere, come in effetti permise, il regolare rifornimento di derrate alla città isolata.
L'adesione ai moti da parte della cittadinanza fu unanime. E fu la guerra civile, come sempre cruentissima, con innumerevoli vittime d'ambo le parti. I circa 30.000 insorti in armi (il Procuratore Generale della Corte d'Appello ne stimerà il numero in 40.000) tennero in scacco i migliori reparti del regio esercito, battendoli ripetutamente, per sette giorni e mezzo in città e per dodici giorni nel circondario. L'esercito arrivò ad impegnare più di 40.000 uomini agli ordini del generale Cadorna, inteso poi "il macellaio", oltre ad ingenti forze di polizia e gran parte della marina da guerra, che bombardò a più riprese la città.
Cadde in quei giorni, riscattando così in parte il suo discusso passato, quel Salvatore Miceli, già temuto capomafia e poi abile capobanda di picciotti in aiuto a Garibaldi nel '60; cadde dissanguato per le gambe troncate da un colpo di mitraglia mentre dava l'assalto alle mura della Vicaria per liberare Giuseppe Badia, esponente di spicco degli azionisti arrestato precedentemente.
Pur facendo riferimento alla propria parte politica d'appartenenza, vi fu sul terreno una straordinaria unità d'azione delle squadre armate. La diversità si notava soltanto nel grido con cui esse usavano andare all'assalto: "Viva la Sicilia" (i filoborbonici, gli autonomisti e gli indipendentisti), "Viva la Repubblica" (i radicali e gli azionisti), "Viva Santa Rosalia" (i cattolici tradizionalisti).
L'adesione sarà talmente totale che si arriverà al punto che solo una trentina di palermitani in tutto tra cui il sindaco protempore, il marchese di Rudinì, fiancheggerà le "truppe d'occupazione piemontesi". Per questo tradimento il marchese di Rudinì avrà completamente bruciato il suo bel palazzo avito ai Quattro Canti. La numerosa Guardia Nazionale, che aveva rifiutato in massa di sparare sui concittadini, si disciolse come neve al sole e molti elementi passarono con i ribelli. Per ironia della sorte i più irriducibili combattenti delle squadre furono le centinaia di giovani renitenti alla mal sopportata coscrizione obbligatoria, istituita di recente dal governo, e i disertori siciliani del regio esercito.
Eppure malgrado l'evidente capacità di successo dimostrata sul terreno propriamente militare, l'insurrezione cominciò a perdere gradatamente mordente. La verità era che essa risultava praticamente acefala nella guida politica. Certa borghesia, che tante colpe ha nella tormentata storia di questo nostro Sud, si dimostrò come sempre avida e calcolatrice, e pur non ostacolando apertamente la ribellione non fornì i decisivi quadri politici, che in quel momento solo essa d'altronde poteva offrire, essendo l'aristocrazia solo un simulacro dell'orgogliosa casta dirigente di un tempo. Purtuttavia furono elementi appartenenti a quest'ultima, quali il barone Riso e tre principi d'illustri casate, ad assumersi la responsabilità di tentare di costruire una linea politica vincente. Ma la loro visione delle cose, superata dai tempi, agì da freno. Solo Francesco Bonafede, che di fatto era il vero leader carismatico delle squadre armate, consigliò e caldeggiò la costituzione di un governo provvisorio rivoluzionario, ma il suo consiglio restò inascoltato. Da quel momento l'insurrezione si autocondannò all'insuccesso.
Scrive lo storico Rosario Romeo ne "Il Risorgimento in Sicilia" (Bari 1973) che la rivolta palermitana del 1866 "... non divenne insurrezione generale dell'isola e poté essere facilmente domata solo per la mancata collaborazione dei ceti dirigenti... ". La borghesia meridionale, per meri interessi di bottega, aveva tradito ancora una volta la sua terra e la sua gente.
Le sette giornate di Palermo costarono lacrime e sangue a tutti. I reparti del regio esercito e delle forze di polizia contarono tra le proprie fila oltre 200 morti, più un migliaio di feriti gravi e leggeri, circa 2200 uomini fatti prigionieri dagli insorti.
Le perdite dei rivoltosi non furono mai accertate ufficialmente (in verità non si volle), ma gli storici concordano nel calcolarle a molte migliaia durante i combattimenti, a cui occorre aggiungere poi le altre migliaia di popolani arrestati e, senza regolari processi, gettati a marcire nelle patrie galere dopo la fine della rivolta, senza contare infine le numerosissime condanne a morte e all'ergastolo irrogate dai tribunali militari.
Con stupore l'opinione pubblica italiana cominciò a rendersi conto dell'esistenza di un irrisolto "problema siciliano". A molte delle incomprensioni attuali si pose fondamenta in quei giorni da tregenda.
(Questo saggio è uscito anche su L'Alfiere, pubblicazione napoletana tradizionalista, Fascicolo XXII Ottobre 1997)
Pino Marinelli
Sciacca (AG)
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Attualmente dette ricerche mi hanno portato in Sicilia " gioia e dolore" del Regno delle Due Sicilie, Purtroppo gli archivi storici siciliani di quel tempo " guarda caso" sono andati distrutti nel corso degli anni o non sono consultabili per chi non è storico di professione, quindi interamente dedicato a ricerche storiche con profusione di tempo e soldi.
Purtroppo fino a quando questa "Rivoluzione Storico-Culturale" non sarà possibile, sta a noi genitori, a noi lettori, a noi frequentatori dell'Internet, cercare, documentarsi e diffondere tutto quanto venga a nostra conoscenza
cominciando a dire e smentire che " il famoso grido di dolore che si leva verso di noi" declamato da Vittorio Emanuele II il 10 gennaio 1859, NON C'E' MAI STATO, c'è stato invece il pressante invito dei massoni (Garbaldi & C.), degli anticlericali (Il Regno delle Sue Sicilie era cattolicissimo), gli avventurieri (Garibaldi), i sognatori ( i Siciliani che credettero nelle promesse di Cavour e Garibaldi, per poi pentirsene amaramente), i traditori e gli Ignavi ( i Baroni e la nobiltà siciliana), e al di sopra tutti l' INGHILTERRA, ma questa è un'altra storia che vi racconteremo più avanti.
Voglio sottoporvi, una delle pagine più sanguinose vissute dai siciliani, e cioè la rivolta di Palermo, detta anche del Sette e Mezzo(come i giorni che durò) appena pochi anni dopo l'Unità (si fa per dire) d'Italia.
a cura di Pino Marinelli
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Tratto da " Il Brigantino - Il Portale del Sud
La rivolta del " 7 e mezzo" di Fara Misuraca
microbiologa e appassionata di storia, che vive e lavora a Palermo
"Una tinta (*) mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi (*), i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo (*) che le cavallette, vennero arrisbigliati (*) di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio (*) di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri,(*) Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri (*) nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata (*), scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia (*) di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia". (Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Edizioni Rizzoli - La Scala)
Così molto coloritamente Camilleri descrive l’inizio del “Sette e mezzo”. La rivolta davvero fu iniziata da squadre di contadini, circa 3 o 4000 uomini, provenienti dalle campagne circostanti Palermo. Erano guidate in buona parte da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa garibaldina del 1860. Una volta entrati in città, nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866, rapidamente riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila uomini in armi, e certamente se all’inizio essa fu indubbiamente una manifestazione esplosiva di malcontento e di protesta popolare la sua rapida diffusione la massiccia partecipazione furono certamente opera di una concertazione, da tempo preparata, di alcune forze politiche. Il mescolarsi della spontaneità popolare con la rivolta organizzata fu favorito dalla situazione economica disastrosa, come detto in precedenza, e dallo scoppio della terza guerra d’indipendenza che stava mostrando la debolezza dello stato savoiardo in seguito alle sconfitte di Custoza e di Lissa. La capacità di controllo della classe liberale che aveva appoggiato Vittorio Emanuele era ormai deteriorata, e non solo in Sicilia. Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Tuttavia Mazzini, tanto per cambiare, se ne dissociò e addirittura la criticò. Essendo a conoscenza delle intenzioni dei repubblicani di Palermo, qualche mese prima (a conferma della lunga preparazione della rivolta) aveva scritto “un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…” (Mazzini a Bagnasco in “Il precursore” Palermo 31 luglio 1865) e forse a pensarci bene non aveva torto.
La caratteristica peculiare della rivolta del 1866 fu in ogni caso la contemporanea partecipazione della destra estrema e della sinistra. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta.
Per sette giorni e mezzo Palermo restò in mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). E solo in seguito all’impiego di 40.000 soldati e soprattutto dei bombardamenti all’americana ordinati dal generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Si contarono miglia di morti e migliaia di prigionieri, ma non cifre ufficiali, forse il nuovo stato unitario se ne vergognava.
Non solo questo però possiamo leggere in questa rivolta. Non meno importante è la sua valenza politica. Possiamo infatti affermare che ha avuto un ruolo nella formazione della classe politica italiana, in particolare nella storia della sinistra italiana.
Il sette e mezzo, o meglio la parte di sinistra del sette e mezzo nasce dalla crisi del partito d’azione, dopo le sconfitte garibaldine in Aspromonte. L’evento portò il mazziniano Crispi, ad optare per la monarchia “la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe” e questo strappo verso la destra fece nascere una sinistra intransigente ed estremista che guidata da persone come Friscia, Corrao, Bonafede, continuarono a lottare per l’ideale repubblicano, questa gente si staccò ben presto da Garibaldi e Mazzini e cercò, con poca fortuna, di agire da sola.
Bakunin, che fu critico verso questi personaggi, non può tuttavia fare a meno di considerare il Mezzogiorno come luogo d’elezione per una rivolta del proletariato, perché terra ricca di emarginati, poveri ed oppressi. Non c’era alternativa: o briganti (e quindi mob) o rivoluzionari (estremisti sia della destra legittimista che di sinistra).
L’insurrezione fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e non solo in Sicilia. Fu ordinata, su proposta di Mordini, la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono miglioramenti, si soffocò, si andò avanti e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi “non” ne raccogliamo i frutti …
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Ricostruzione storica della rivolta di Palermo, o del / e mezzo, fatta da: ORAZIO FERRARA
Orazio Ferrara, è nato a Pantelleria (1948), Scrittore e saggista, vive a Sarno in provincia di Salerno:
16 - 22 settembre 1866
Le sette giornate di Palermo
Il no siciliano alla piemontesizzazione
di Orazio Ferrara
Gli anni immediatamente successivi alla cosiddetta "Unità d'Italia" videro la Sicilia solo marginalmente interessata da quel fenomeno di massa della resistenza armata contro i "Piemontesi", che, sotto la guida dei legittimisti, divampava, con accenti epici, in tutte le altre regioni meridionali. Ciò perché ancora bruciava ai Siciliani la mancata comprensione della loro "specificità" da parte dei passati governi borbonici. Però, man mano che cadevano ad una ad una tutte le illusioni sorte con la venuta delle rosse camicie di don Peppino Garibaldi, montava la collera degli strati popolari. E così anche la Sicilia non mancò a quel tragico appuntamento con la Storia, pagando il suo non lieve contributo di sangue alla Resistenza meridionale. .
Le sette giornate della rivolta di Palermo del settembre 1866 furono la testimonianza tangibile di una cosiddetta "unità nazionale", malamente perseguita e peggio attuata. Manco a farlo apposta i più decisi tra i rivoltosi furono proprio i "picciotti", che sei anni prima avevano permesso le "strepitose" vittorie di Garibaldi. Essi furono i più determinati nella lotta perché erano stati traditi nel peggiore dei modi: nella loro buona fede. La politica perseguita in Sicilia dal governo italiano, o per meglio dire sabaudo, fu in quegli anni veramente miope, sciocca e, non ultima, violenta. La verità è che, come scrive Paolo Alatri (Lotte politiche in Sicilia, Torino 1954): "I funzionari, per lo più settentrionali... consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari... Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo d'antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l'introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocò l'impossibile: l'alleanza tattica dei gruppi filoborbonici con i circoli del radicalismo democratico, cioè l'ala oltranzista del vecchio partito filogaribaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti, componenti politiche quest'ultime perennemente presenti nella storia dell'isola".
L'originalità di questa alleanza, che fuoriesce da tutti gli schematismi abituali, la dice lunga su quale laboratorio politico di prim'ordine fosse in funzione in quel momento in Sicilia.
Ed è in questa originalità che vanno ricercati sia il principale punto di forza della rivoluzione (perché di vera e propria rivoluzione si trattò, anche se limitata a Palermo e al suo circondario) per la partecipazione corale, senza divisioni, dell'intera popolazione, sia il principale punto di debolezza per l'intrinseca mancanza, per ovvi motivi, di un'unica e coerente direzione politica e quindi di idonei quadri, cosa che determinò alla fine la sconfitta generale di tutti i rivoluzionari.
La repressione che seguì fu talmente barbara da far registrare un numero di vittime di gran lunga maggiore di quello avutosi nella fatidica guerra di "liberazione" garibaldina del 1860. Ma la cosa peggiore fu come al solito il tentativo, riuscito perfettamente per l'imperante servilismo della storiografia ufficiale, di infangare la memoria storica degli sconfitti. Vecchio male nazionale. Così se i combattenti legittimisti del Napoletano, della Lucania, delle Calabrie e delle Puglie non erano stati altro che briganti e banditi da strada; per i Siciliani del '66 ci si inventò l'accusa di essere stati parte integrante di un più vasto disegno criminoso, ordito dall'onnipresente Mafia. Fervida fantasia quella dei politicanti dell'Italia post-unitaria! Ed è così che quel1e tragiche giornate del settembre 1866, che avevano visto versare tanto generoso sangue siciliano, passarono nei libri di testo, fino in tempi a noi recenti, come " un episodio di malandrinaggio collettivo". Ci sono voluti storici seri, non corrivi alla solita retorica patriottarda, affinché ultimamente si facesse un po' di luce.
L'insidioso teorema per cui vi era perfetta coincidenza d'intenti tra i cospiratori siciliani e i mafiosi, anzi che si era in presenza di un tutt'uno, fu elaborato e portato avanti con tempestività dal prefetto palermitano del tempo, Gualtiero, in tutta una serie di rapporti al governo, probabilmente su imbeccata di quest'ultimo.
Particolarmente preso di mira, nei citati rapporti, "l'ibrido connubio" tra gli oltranzisti del vecchio partito garibaldino e i filoborbonici.
Il teorema precedé la stessa fase rivoluzionaria, infatti se ne ebbe un primo rozzo abbozzo allorché il Gualtiero cominciò a rendersi conto del1'avvenuta saldatura tra le diverse anime antipiemontesi della Sicilia, dagli indipendentisti ai legittimisti, e di conseguenza dell'ormai inarrestabile onda montante della collera popolare. A nulla valse per il governo l'aver ordito l'infame assassinio del generale Corrao, accusato di tessere i legami tra le diverse componenti, così come a nulla valse l'ulteriore arresto di Giuseppe Badia, succeduto al Corrao. La Sicilia ribolliva sempre più di cospiratori. A questa impotenza si trovò il palliativo di rispondere con nuovi rapporti prefettizi tendenti a rappresentare tutta l'opposizione politica semplicemente come un'organizzazione di tipo malandrinesca. Ecco dunque il partito della mafia avverso ai "piemontesi", che andava combattuto con qualsiasi mezzo, dalla delazione alla tortura, trattandosi di contrastare una truculenta associazione a delinquere.
Se all'inizio questo subdolo teorema fece prendere soltanto delle grosse cantonate al governo italiano (d'altronde ispiratore dello stesso Gualtiero) per cui subì una clamorosa disfatta iniziale in quel di Palermo, dove popolani male armati ebbero per giorni la meglio su una numerosa truppa addestrata, esso si rivelò poi assai utile e prezioso nella fase successiva, a rivoluzione fallita, quando si trattò di imbonire l'opinione pubblica italiana e quella internazionale sulla necessità di una dura e persistente repressione, come se non fosse già bastato, a seguito di vili ordini, il crudele cannoneggiamento della città da parte della flotta italiana. Per molto meno Ferdinando II di Borbone si vide affibbiare l'epiteto di Re Bomba.
La repressione esitò infine nel tristissimo fenomeno dell'emigrazione, dissanguando così la Sicilia dei suoi figli più intraprendenti.
Eppure è stato documentato da storici imparziali che molti di quei capipopolo e gran parte dei picciotti delle squadre armate, fatti passare per mafiosi e manutengoli dei Barbone, avevano un passato di tutto rispetto in nome dell'unità d'Italia. In pratica erano le stesse squadre e i medesimi capi che nel 1860 avevano permesso la tranquilla passeggiata di don Peppino Garibaldi in terra di Sicilia. Senza il loro determinante apporto il rossiccio generale avrebbe certamente assaporato di qual gusto amaro sapessero le salse acque del mare siciliano. Ad essi la parte più stolida della storiografia piemontese riservò la degradazione "da tutti eroi a tutti mafiosi"; dimenticando i veri mafiosi di cui si erano effettivamente serviti i Mille come quel Badalamenti, inteso 'u zu Piddu Ranteri, così descritto da Antonio Cutrera nel suo "La mafia e i mafiosi" (Palermo 1900): "... capraro facinoroso e mafioso, al quale dolevano ancora le piante dei piedi, per le vergate avute dalla polizia borbonica, per costringerlo a confessare certi peccati da lui commessi, tutt'altro che politici". Il Cutrera è scrittore filogovernativo al 100%, tanto che per farsi perdonare il suo piccolo peccato veniale aggiunge subito dopo, nella stessa pagina: "Venne il 1866: la mafia e la feccia della società, spinte dagli elementi sovversivi, repubblicani, borbonici e clericali, sotto pretesto di volere una libertà maggiore, a foggia repubblicana, provocarono una settimana di rivolta civile in Palermo". E' il teorema Gualtiero passato nelle pagine di uno storico.
Ma torniamo alle tragiche giornate palermitane del settembre 1866.
Tralasciamo i soliti pennivendoli, anche storici di fama, che hanno rivalutato con studi seri i moti palermitani, analizzando ed evidenziando la corale partecipazione popolare, hanno però svilito la cosa, riducendo il tutto ad una mera ribellione delle classi subalterne contro la miseria e contro l'oppressione delle classi dominanti. In quest'ottica va visto il grosso risalto dato, da questi storici, alla componente radicale a sfondo socialistica dei rivoltosi, con un certo spazio anche alla corrente autonomistica, ignorando quasi del tutto quella indipendentista, e ciò la dice già lunga sulla loro reale obiettività. (...)
Sulla reale consistenza della partecipazione dei legittimisti borbonici alla rivolta palermitana è certamente più sincero lo storico inglese Denis Mack Smith, che, nel 3° volume della sua "Storia della Sicilia medievale e moderna" (Bari 1976), scrive al riguardo: "Ancora più pericolosi, all'altro estremo, erano i conservatori nostalgici dei Borboni: nel 1862 alcuni parlamentari siciliani avevano già in corso dei negoziati segreti con l'ex re borbonico... ".
Le scintille, innescanti il fuoco della sommossa, furono come al solito occasionali. Furono le ottuse limitazioni imposte alle popolarissime feste di S. Rosalia, la santa patrona cara al cuore di ogni palermitano, e l'introduzione del monopolio statale del tabacco con la fine dell'esenzione goduta fino allora in Sicilia. Rapidamente divampò la protesta degli strati più popolari e si ebbero i primi disordini. Era ciò, che aspettava da tempo il Comitato rivoluzionario con le sue squadre clandestine già allertate, anche perché i reparti militari di stanza nell'isola erano profondamente demoralizzati per le recentissime disastrose sconfitte subite al nord dall'esercito italiano nella guerra contro l'Austria.
Fin dall'inizio delle operazioni la conduzione dell'ala militare del Comitato fu impeccabile, se a ciò avesse corrisposto un'uguale capacità e sagacia dell'ala politica le cose sarebbero forse andate diversamente. Si cominciò dal controllo del circondario, facendo poi convergere tutte le squadre su Palermo. Si ripeteva la tattica del '60, questa volta però contro "i piemontesi".
Toccò per prima a Monreale, dove un'intera compagnia di granatieri, che spalleggiava l'odiato Delegato di P.S. Rampolla, fu letteralmente fatta a pezzi insieme a quest'ultimo. La scena si ripeté a Boccadifalco con lo sterminio di un reparto di "carabinieri piemontesi". A Misilmeri al termine della giornata campale la truppa si ritirò, lasciando sul terreno ben 27 morti. Infine, come fossero un sol uomo, tutti i centomila contadini della Conca d'Oro insorsero. I più decisi, armati di vecchie scoppette da caccia, si unirono alle squadre e marciarono su Palermo, al loro seguito centinaia di carri carichi di vettovaglie.
Il controllo militare delle campagne circostanti era considerato un primario obiettivo nei disegni strategici del Comitato, in quanto doveva permettere, come in effetti permise, il regolare rifornimento di derrate alla città isolata.
L'adesione ai moti da parte della cittadinanza fu unanime. E fu la guerra civile, come sempre cruentissima, con innumerevoli vittime d'ambo le parti. I circa 30.000 insorti in armi (il Procuratore Generale della Corte d'Appello ne stimerà il numero in 40.000) tennero in scacco i migliori reparti del regio esercito, battendoli ripetutamente, per sette giorni e mezzo in città e per dodici giorni nel circondario. L'esercito arrivò ad impegnare più di 40.000 uomini agli ordini del generale Cadorna, inteso poi "il macellaio", oltre ad ingenti forze di polizia e gran parte della marina da guerra, che bombardò a più riprese la città.
Cadde in quei giorni, riscattando così in parte il suo discusso passato, quel Salvatore Miceli, già temuto capomafia e poi abile capobanda di picciotti in aiuto a Garibaldi nel '60; cadde dissanguato per le gambe troncate da un colpo di mitraglia mentre dava l'assalto alle mura della Vicaria per liberare Giuseppe Badia, esponente di spicco degli azionisti arrestato precedentemente.
Pur facendo riferimento alla propria parte politica d'appartenenza, vi fu sul terreno una straordinaria unità d'azione delle squadre armate. La diversità si notava soltanto nel grido con cui esse usavano andare all'assalto: "Viva la Sicilia" (i filoborbonici, gli autonomisti e gli indipendentisti), "Viva la Repubblica" (i radicali e gli azionisti), "Viva Santa Rosalia" (i cattolici tradizionalisti).
L'adesione sarà talmente totale che si arriverà al punto che solo una trentina di palermitani in tutto tra cui il sindaco protempore, il marchese di Rudinì, fiancheggerà le "truppe d'occupazione piemontesi". Per questo tradimento il marchese di Rudinì avrà completamente bruciato il suo bel palazzo avito ai Quattro Canti. La numerosa Guardia Nazionale, che aveva rifiutato in massa di sparare sui concittadini, si disciolse come neve al sole e molti elementi passarono con i ribelli. Per ironia della sorte i più irriducibili combattenti delle squadre furono le centinaia di giovani renitenti alla mal sopportata coscrizione obbligatoria, istituita di recente dal governo, e i disertori siciliani del regio esercito.
Eppure malgrado l'evidente capacità di successo dimostrata sul terreno propriamente militare, l'insurrezione cominciò a perdere gradatamente mordente. La verità era che essa risultava praticamente acefala nella guida politica. Certa borghesia, che tante colpe ha nella tormentata storia di questo nostro Sud, si dimostrò come sempre avida e calcolatrice, e pur non ostacolando apertamente la ribellione non fornì i decisivi quadri politici, che in quel momento solo essa d'altronde poteva offrire, essendo l'aristocrazia solo un simulacro dell'orgogliosa casta dirigente di un tempo. Purtuttavia furono elementi appartenenti a quest'ultima, quali il barone Riso e tre principi d'illustri casate, ad assumersi la responsabilità di tentare di costruire una linea politica vincente. Ma la loro visione delle cose, superata dai tempi, agì da freno. Solo Francesco Bonafede, che di fatto era il vero leader carismatico delle squadre armate, consigliò e caldeggiò la costituzione di un governo provvisorio rivoluzionario, ma il suo consiglio restò inascoltato. Da quel momento l'insurrezione si autocondannò all'insuccesso.
Scrive lo storico Rosario Romeo ne "Il Risorgimento in Sicilia" (Bari 1973) che la rivolta palermitana del 1866 "... non divenne insurrezione generale dell'isola e poté essere facilmente domata solo per la mancata collaborazione dei ceti dirigenti... ". La borghesia meridionale, per meri interessi di bottega, aveva tradito ancora una volta la sua terra e la sua gente.
Le sette giornate di Palermo costarono lacrime e sangue a tutti. I reparti del regio esercito e delle forze di polizia contarono tra le proprie fila oltre 200 morti, più un migliaio di feriti gravi e leggeri, circa 2200 uomini fatti prigionieri dagli insorti.
Le perdite dei rivoltosi non furono mai accertate ufficialmente (in verità non si volle), ma gli storici concordano nel calcolarle a molte migliaia durante i combattimenti, a cui occorre aggiungere poi le altre migliaia di popolani arrestati e, senza regolari processi, gettati a marcire nelle patrie galere dopo la fine della rivolta, senza contare infine le numerosissime condanne a morte e all'ergastolo irrogate dai tribunali militari.
Con stupore l'opinione pubblica italiana cominciò a rendersi conto dell'esistenza di un irrisolto "problema siciliano". A molte delle incomprensioni attuali si pose fondamenta in quei giorni da tregenda.
(Questo saggio è uscito anche su L'Alfiere, pubblicazione napoletana tradizionalista, Fascicolo XXII Ottobre 1997)
Pino Marinelli
Sciacca (AG)
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mercoledì 12 settembre 2007
Perchè non ci molleranno mai. (seconda ed ultima parte)
Nella prima parte del presente articolo è stata fatta un'analisi storica in cui abbiamo dimostrato che la Sicilia ed il Sud continentale non sono dei luoghi in cui la povertà è un fenomeno irrimediabile, ne di lunga data, anzi le nostre terre hanno da sempre delle potenzialità economiche maggiori di altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Se fino ad oggi la Sicilia è stata volutamente tenuta lontana dai grandi traffici internazionali, grazie ad un'alchimia socio-culturale-economica che ha contribuito a spostare artificialmente il baricentro economico dall'asse Palermo-Napoli a quello Torino-Milano.
Ma può tale artifizio contro natura durare a lungo?Noi crediamo di no, ma prima vorremmo parlare delle ricchezze economiche e logistico-strategiche del Sud e della Sicilia ed a cui i poteri forti del Nord non vorrebbero per nessun motivo rinunciare.
Con la nascita della globalizzazione, sempre più aziende hanno deciso di "delocalizzare" le loro produzioni nel nuovo Eldorado dell'estremo oriente, allettati dal basso costo della manodopera, dall'assenza dei sindacati e del relativamente basso costo dei trasporti.
Tale "emigrazione" di aziende ha causato un aumento vertiginoso della disoccupazione, soprattutto al nord e che ha causato lo spostamento di buona parte della forza lavoro nel settore dei servizi, ma con contratti precari.
Oltretutto la recente politica monetaria della BCE ha causato un considerevole aumento dei mutui e lo scoppio della bolla immobiliare rischia di far deflazionare il valore delle case, mandando in fallimento migliaia di famiglie.
Se da un lato il nord è in chiara recessione, un nuovo ed inaspettato interesse si sta convogliando nei confronti del meridione, ma soprattutto nei confronti della Sicilia.
Ormai la maggiorparte delle merci che raggiungono l'Europa ,vengono prodotte in estremo oriente e transitano nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
Adesso, il polo logistico naturale, il porto del Mediterraneo, l'hub per eccellenza è da secoli la Sicilia.
Dalla Sicilia, ma anche da tutto il Sud, partiranno quindi le merci che verranno smistate in tutta Europa.
Chi controllerà dunque la Sicilia, nei suoi porti, negli aeroporti, negli interporti, nelle autostrade, nelle ferrovie, controllerà il Mediterraneo e potrà mettere le sue mani sull' Europa.
Ecco perchè ultimamente si avvertono degli interessi strani nei confronti della nostra isola che hanno per contorno strane attività politiche: stiamo parlando di fortissimi interessi economici.
Alcune tracce che indicano la nuova situazione:
1)Il completamento a tempi di record del bellissimo Aeroporto di Catania, la cui costruzione in altri tempi avrebbe impiegato decenni e si sarebbe conclusa con il solito fallimento dell'azienda costruttrice.
L'anno scorso il nostro aeroporto ha trasportato più di 5 milioni di passeggeri ed il trend segna una decisa crescita.
E' da notare il grosso successo di una compagnia aerea siciliana, la Windjet di Nino Pulvirenti che nell'ultimo anno ha trasportato la cifra record di 1 milione di passeggeri.
2)L'avvio dei lavori per l'aeroporto di Comiso(RG) ed il completamento della pista.
L'ultimazione dell'infrastruttura è prevista per il prossimo anno.
3)L'avvio dei lavori per novembre dell'Interporto di Catania e di Termini Imerese(PA)
4)L'avvio dei lavori ed il buon andamento dell'opera di costruzione dell'autostrada Catania-Siracusa
5)La proposta per il raddoppio della Catania-Ragusa e della riattivazione della ferrovia nella stessa tratta.
La posizione strategica della Sicilia è stata sfruttata per il passaggio dei gasdotti che dall'Africa vanno in Italia.
Sempre per rimanere in tema di idrocarburi è possibile vedere dalla seguente mappa i più importanti giacimenti petroliferi e metaniferi della Sicilia.
Per quanto riguarda il Sud continentale ed in particolar modo la Calabria, è da segnalare il grande progresso fatto dal porto di Gioia Tauro(RC) ormai divenuto primo porto del Mediterraneo e l'unico che riesca ad ospitare le mega-portacontainer provenienti dalla Cina, infatti per entrare nei porti del nord i container devono essere caricati su navi più piccole: operazione che viene fatta a Gioia Tauro.
Mentre è recente la notizia del ritrovamento nel Parco Nazionale della Val D'Agri, in Basilicata, del più grande giacimento petrolifero dell'Europa continentale.
Forse il petrolio delle Due Sicilie non sarà tanto come quello dell'Arabia Saudita, ma per noi meridionali basta ed avanza, soprattutto in questo periodo di guerre per la "democrazia" e salassi petroliferi, ed in ogni caso anche il petrolio arabo passa dal Canale di Suez ed indovinate da dove verrà smistato e raffinato?
In Sicilia, nel triangolo Augusta-Priolo-Melilli(SR) è presente il più grosso complesso di raffinerie d'Europa, se ne contano ben 49 e riforniscono l'Italia per il 40% della benzina.
E' chiaro che se queste raffinerie smettessero di funzionare il sistema economico italiano crollerebbe, dunque chi controlla le raffinerie siracusane, controlla l'Italia.
L'importanza strategica della Sicilia in ogni caso non è una novità, gli americani lo sanno benissimo, infatti a Sigonella(CT) esiste la base USA che controlla tutto il Mediterraneo, non per nulla denominata The hub of the Med.
Infatti riteniamo che la "questione siciliana" sia diventata una battaglia che si integra perfettamente all'interno di una guerra che si sta svolgendo tra la Russia, detentrice delle più grosse riserve di greggio e gas naturale e le Sette Sorelle che invece lavorano con la raffinazione, estrazione e la vendita degli idrocarburi.
E' chiaro che dalla parte delle Sette Sorelle vi sia tutto il mondo occidentale, Stati Uniti inclusi, ma tutti hanno disperatamente bisogno di idrocarburi.
La Russia lo sa e per questo sta cercando di ottenere un monopolio energetico, i cui artigli sono i gasdotti.
Anche i nostri politici lo sanno e stanno cercando di affrancarsene, investendo nei rigassificatori che permettono il rifornimento del gas da paesi che non siano la Russia.
Ecco perchè la Gazprom, azienda metanifera russa si è appena comprata una grossa quota della sua pari algerina, la Sonatrach, che porta da sud il gas all'Italia, facendolo passare dalla Sicilia....
Anche la Puglia è diventata da un momento all'altro una regione "importante" soprattutto grazie al progetto del gasdotto Russia-Bulgaria-Grecia-Puglia.
Sarà per questo che la Gazprom ha recentemente avanzato un'offerta per l'acquisto del Bari Calcio?
In Italia c'è un grosso imprenditore-politico, sostenitore ed amico di Putin, si chiama Berlusconi e fa parte della stessa coalizione politica di Raffaele Lombardo, leader dell'MPA, attualmente maggioranza in Sicilia.
Ovviamente la sinistra al governo, politicamente vicina alle Sette Sorelle, ha interesse invece a costruire i rigassificatori e vuole farli soprattutto al Sud, sempre per il discorso del vantaggio logistico.
Ecco perchè Lombardo si è prestato volentieri alla lotta contro la costruzione di un'impianto di rigassificazione a Priolo, ma ciò non significa che non abbia reso un grosso servigio ai Priolesi, anche se non crediamo che voglia realmente iniziare una vera e propria lotta per la chiusura delle raffinerie.
Probabilmente un nuovo periodo d'oro attende la Sicilia, proprio come avvenne l'ultima volta, durante il Regno delle Due Sicilie; grazie ai tanti investimenti che presto la nostra isola riceverà per adeguarla al nuovo assetto politico-economico dell'area euro-mediterranea.
Ma ciò non significa che sarà la fine dei nostri problemi, anzi è arrivato il momento giusto per riflettere, magari mettendoci tutti una mano sulla coscienza perchè se la società di oggi è malata non è solo colpa della politica, ma anche a causa dei Valori Cristiani che abbiamo perduto.
Il Comitato
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lunedì 10 settembre 2007
Perchè non ci molleranno mai (prima parte)
Vi siete mai chiesti perchè i greci sbarcarono a Naxos, nei pressi di Taormina e non a Rimini?
E perchè Ancona è una colonia siceliota e non è stata fondata, che so?dagli etruschi?
E come mai le 3 capitali dell'antichità risiedono tutte al centro-sud?
Siracusa(periodo greco), Roma (periodo romano), Palermo (periodo medioevale con Federico II di Svevia).
E come mai i barbari venivano sempre dal nord? (e per "barbari" s'intendevano proprio i popoli del nord)
Come mai è da 2000 anni che qualcuno, da nord, cerca sempre di impossessarsi del Sud?
Ce lo siamo chiesti anche noi del Comitato ed abbiamo provato a darci delle risposte, ma prima è stata necessaria una profonda riflessione:
Il Sud Italia o Ex Regno delle Due Sicilie ed in particolar modo la Sicilia, è per motivi climatici, strategici e culturali, il territorio più ricco d'Italia e dell'intero mediterraneo.
Come è possibile allora che l'economia della parte più bella e ricca d'Italia è oggi a dir poco catastrofica?
Dobbiamo sapere che durante il Regno delle Due Sicilie, l'economia siciliana era piuttosto florida.
Si contavano numerose industrie e soprattutto l'agricoltura, oggi inesistente, contribuiva in maniera rilevantissima all'export nazionale.
Le industrie cotoniere di Leonforte e Trapani, producevano un'enorme quantità di prodotto che veniva venduto in tutta la Sicilia ed era molto apprezzato anche all'estero.
(vedi documento http://books.google.it/books?id=xqMAAAAAMAAJ&pg=RA2-PA267&dq=leonforte+cotone )
Ai più forse suonerà strano sapere che durante il Regno delle Due Sicilie, e finchè esso durò, la Sicilia fosse la prima regione produttrice di cotone.
Ma non solo cotone, anche lino, canapa, riso e seta.
(vedi documento http://books.google.it/books?id=nZ4BAAAAQAAJ&pg=PA332&dq=cotone+seta+canapa+sicilia&as_brr=1 )
In realtà questi prodotti venivano coltivati da secoli in Sicilia, tant'è che influenzarono anche la toponomastica e la cucina della nostra regione.
Così abbiamo nei pressi di Zafferana Etnea(CT) un comune che si chiama "Linera", mangiamo gli arancini di "riso" e la "granita ai gelsi" è una prelibatezza, ma le foglie di gelso sono nella catena alimentare dei bachi da seta...
Anche l'industria siderurgica era di primo livello in Sicilia, prova ne è la Real Fonderia Oretea di Palermo, di proprietà dei Florio, che fino al 1870 dava lavoro a più di 700 operai.
(vedi documento: http://books.google.it/books?id=PIjl3cHRegUC&pg=PA182&dq=fonderia+oretea&as_brr=0&sig=kFZ-E0hlmRUoXhKNrBNLW0BgdyM )
Nei musei marittimi di tutta Europa è ancora oggi possibile ammirare manometri, pressometri, pressostati ed altri strumenti di precisione per macchine a vapore prodotti nella efficiente fonderia palermitana.
E stiamo volutamente sorvolando sulle risorse sulfuree, che facevano della Sicilia l'Eldorado dell'Ottocento, e che il nostro re Ferdinando II fece di tutto per proteggere dalle mire straniere (inglesi e francesi) e usare come fonte di benessere locale.
Se con il Regno delle Due Sicilie l'economia era florida, lo stesso non si può dire con il Regno d'Italia: tutte le realtà imprenditoriali della nostra isola, e della parte continentale dell'ex Regno, furono in un modo o nell'altro contrastate e costrette alla chiusura, a vantaggio del triangolo industriale del settentrione.
Ecco perché è proprio dopo l'unità d'Italia che inizia la famosa Emigrazione Meridionale, qualcosa che le nostre terre in 2000 anni di storia mai avevano conosciuto!
Anzi, il Sud era sempre stato paese di immigrazione, come ci racconta questo intelligente giornalista svizzero in una sua inchiesta che racconta le esperienze dei tanti svizzeri che lasciarono la terra elvetica per cercare fortuna nella dinamica realtà economica del Regno delle Due Sicilie.
E insieme agli svizzeri, altri immigranti con spirito imprenditoriale si muovevano da tutta Europa verso l'Italia meridionale.
(vedi documento: http://www.swissinfo.org/ita/primo_piano/detail/Napoletana_Quando_mai_La_pasta_Voiello_e_svizzera.html?siteSect=108&sid=7279252&cKey=1164362791000 )
D'altronde, chi come me è di Catania, conoscerà sicuramente la prestigiosissima "Pasticceria Svizzera".
FINE PRIMA PARTE
[Leggi tutto...]
E perchè Ancona è una colonia siceliota e non è stata fondata, che so?dagli etruschi?
E come mai le 3 capitali dell'antichità risiedono tutte al centro-sud?
Siracusa(periodo greco), Roma (periodo romano), Palermo (periodo medioevale con Federico II di Svevia).
E come mai i barbari venivano sempre dal nord? (e per "barbari" s'intendevano proprio i popoli del nord)
Come mai è da 2000 anni che qualcuno, da nord, cerca sempre di impossessarsi del Sud?
Ce lo siamo chiesti anche noi del Comitato ed abbiamo provato a darci delle risposte, ma prima è stata necessaria una profonda riflessione:
Il Sud Italia o Ex Regno delle Due Sicilie ed in particolar modo la Sicilia, è per motivi climatici, strategici e culturali, il territorio più ricco d'Italia e dell'intero mediterraneo.
Come è possibile allora che l'economia della parte più bella e ricca d'Italia è oggi a dir poco catastrofica?
Dobbiamo sapere che durante il Regno delle Due Sicilie, l'economia siciliana era piuttosto florida.
Si contavano numerose industrie e soprattutto l'agricoltura, oggi inesistente, contribuiva in maniera rilevantissima all'export nazionale.
Le industrie cotoniere di Leonforte e Trapani, producevano un'enorme quantità di prodotto che veniva venduto in tutta la Sicilia ed era molto apprezzato anche all'estero.
(vedi documento http://books.google.it/books?id=xqMAAAAAMAAJ&pg=RA2-PA267&dq=leonforte+cotone )
Ai più forse suonerà strano sapere che durante il Regno delle Due Sicilie, e finchè esso durò, la Sicilia fosse la prima regione produttrice di cotone.
Ma non solo cotone, anche lino, canapa, riso e seta.
(vedi documento http://books.google.it/books?id=nZ4BAAAAQAAJ&pg=PA332&dq=cotone+seta+canapa+sicilia&as_brr=1 )
In realtà questi prodotti venivano coltivati da secoli in Sicilia, tant'è che influenzarono anche la toponomastica e la cucina della nostra regione.
Così abbiamo nei pressi di Zafferana Etnea(CT) un comune che si chiama "Linera", mangiamo gli arancini di "riso" e la "granita ai gelsi" è una prelibatezza, ma le foglie di gelso sono nella catena alimentare dei bachi da seta...
Anche l'industria siderurgica era di primo livello in Sicilia, prova ne è la Real Fonderia Oretea di Palermo, di proprietà dei Florio, che fino al 1870 dava lavoro a più di 700 operai.
(vedi documento: http://books.google.it/books?id=PIjl3cHRegUC&pg=PA182&dq=fonderia+oretea&as_brr=0&sig=kFZ-E0hlmRUoXhKNrBNLW0BgdyM )
Nei musei marittimi di tutta Europa è ancora oggi possibile ammirare manometri, pressometri, pressostati ed altri strumenti di precisione per macchine a vapore prodotti nella efficiente fonderia palermitana.
E stiamo volutamente sorvolando sulle risorse sulfuree, che facevano della Sicilia l'Eldorado dell'Ottocento, e che il nostro re Ferdinando II fece di tutto per proteggere dalle mire straniere (inglesi e francesi) e usare come fonte di benessere locale.
Se con il Regno delle Due Sicilie l'economia era florida, lo stesso non si può dire con il Regno d'Italia: tutte le realtà imprenditoriali della nostra isola, e della parte continentale dell'ex Regno, furono in un modo o nell'altro contrastate e costrette alla chiusura, a vantaggio del triangolo industriale del settentrione.
Ecco perché è proprio dopo l'unità d'Italia che inizia la famosa Emigrazione Meridionale, qualcosa che le nostre terre in 2000 anni di storia mai avevano conosciuto!
Anzi, il Sud era sempre stato paese di immigrazione, come ci racconta questo intelligente giornalista svizzero in una sua inchiesta che racconta le esperienze dei tanti svizzeri che lasciarono la terra elvetica per cercare fortuna nella dinamica realtà economica del Regno delle Due Sicilie.
E insieme agli svizzeri, altri immigranti con spirito imprenditoriale si muovevano da tutta Europa verso l'Italia meridionale.
(vedi documento: http://www.swissinfo.org/ita/primo_piano/detail/Napoletana_Quando_mai_La_pasta_Voiello_e_svizzera.html?siteSect=108&sid=7279252&cKey=1164362791000 )
D'altronde, chi come me è di Catania, conoscerà sicuramente la prestigiosissima "Pasticceria Svizzera".
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cultura
Perchè "borbonici" e non "indipendentisti"
Alcuni tra i militanti dei più "integralisti" movimenti per l'indipendenza della Sicilia sono rimasti sgomenti nell'apprendere della nascita di un Comitato Siciliano nella nostra isola.
Eppure molti siciliani sono rimasti entusiasti per questa iniziativa che mancava nel panorama culturale e politico della Sicilia.
Riteniamo che le idee forza "borboniche" rispecchino fedelmente la realtà dei fatti e risultino più convincenti e facilmente confrontabili da parte dei nostri interlocutori, rispetto alle tesi "indipendentiste".
Ne elenco alcune:
1)La Sicilia non ha nessuna esperienza moderna di indipendenza totale ed il grado più alto di autonomia si ebbe proprio durante il periodo borbonico.
Per vedere una Sicilia davvero indipendente si deve tornare di secoli indietro, ai tempi di Federico II°, ma anche allora la nostra regione era unita al sud continentale.
In ogni caso l'era federiciana è troppo antica, mentre l'epoca borbonica può essere definita moderna; quanti siciliani oggi vivono, lavorano, pregano in edifici costruiti durante il Regno delle Due Sicilie?
2)Se i movimenti indipendentisti siciliani si ostinano a dichiarare il Borbone "cattivo", come potranno convincere i siciliani affermando allo stesso tempo che nella nostra regione si stava meglio prima dell'unità d'Italia?Dunque chi assicurerà ai siciliani che una Sicilia fuori dall'Italia sia migliore di una Sicilia dentro all'Italia?
Mentre se diciamo ai siciliani la verità, ovvero che la Sicilia durante il Regno delle Due Sicilie era più ricca rispetto ad oggi ed il Borbone non era poi così cattivo, le cose cambiano, perchè abbiamo le prove, ed è una cosa certa.
3)I movimenti indipendentisti siciliani enfatizzano il periodo dei moti (1848) e della costituzione(1812 e 1816) ma anche un'approssimativo studio della storia dimostra che moti e costituzioni furono promossi ed appoggiati dalla Massoneria di stampo Anglo-Sassone che desiderava fare della Trinacria l'ennesima colonia britannica da sfruttare.
Basta leggere, nel 1848, delle centinaia di migliaia di fucili inglesi venduti (non regalati) tramite l'accensione di un mutuo (concesso dai furbi banchieri britannici ed estinto dal Borbone...) ai rivoluzionari massonici siciliani come Ruggiero Settimo, Giuseppe La Farina, Giuseppe La Masa, Piraino ecc.ecc. i quali avevano dichiarato che sarebbero morti in battaglia piuttosto che rinunciare all'indipendenza.
Fuggirono tutti, ma ce li ritroviamo nel 1860 a consegnare la Sicilia ai Savoja e ce li ritroviamo ancora oggi accanto a Piazza Garibaldi ed a Via Vittorio Emanuele.
Erano in 43 a fare la rivoluzione.
(vedi documento: http://www.google.it/books?id=GLszAAAAIAAJ&pg=PA62&dq=ruggiero+settimo+la+farina&as_brr=1#PPA62,M1 )
Ma erano spalleggiati da decine di migliaia di mercenari ungheresi, tedeschi, polacchi ecc.ecc. tutti pagati con il soldo inglese
Quella più che una lotta indipendentista, si rivelò un tradimento della Sicilia.
Il Comitato Siciliano è in possesso di parecchia documentazione storica che utilizzerà di volta in volta per accompagnare tutti gli articoli che trattano dei fasti del periodo borbonico in Sicilia.
Il Comitato, settembre 2007
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Eppure molti siciliani sono rimasti entusiasti per questa iniziativa che mancava nel panorama culturale e politico della Sicilia.
Riteniamo che le idee forza "borboniche" rispecchino fedelmente la realtà dei fatti e risultino più convincenti e facilmente confrontabili da parte dei nostri interlocutori, rispetto alle tesi "indipendentiste".
Ne elenco alcune:
1)La Sicilia non ha nessuna esperienza moderna di indipendenza totale ed il grado più alto di autonomia si ebbe proprio durante il periodo borbonico.
Per vedere una Sicilia davvero indipendente si deve tornare di secoli indietro, ai tempi di Federico II°, ma anche allora la nostra regione era unita al sud continentale.
In ogni caso l'era federiciana è troppo antica, mentre l'epoca borbonica può essere definita moderna; quanti siciliani oggi vivono, lavorano, pregano in edifici costruiti durante il Regno delle Due Sicilie?
2)Se i movimenti indipendentisti siciliani si ostinano a dichiarare il Borbone "cattivo", come potranno convincere i siciliani affermando allo stesso tempo che nella nostra regione si stava meglio prima dell'unità d'Italia?Dunque chi assicurerà ai siciliani che una Sicilia fuori dall'Italia sia migliore di una Sicilia dentro all'Italia?
Mentre se diciamo ai siciliani la verità, ovvero che la Sicilia durante il Regno delle Due Sicilie era più ricca rispetto ad oggi ed il Borbone non era poi così cattivo, le cose cambiano, perchè abbiamo le prove, ed è una cosa certa.
3)I movimenti indipendentisti siciliani enfatizzano il periodo dei moti (1848) e della costituzione(1812 e 1816) ma anche un'approssimativo studio della storia dimostra che moti e costituzioni furono promossi ed appoggiati dalla Massoneria di stampo Anglo-Sassone che desiderava fare della Trinacria l'ennesima colonia britannica da sfruttare.
Basta leggere, nel 1848, delle centinaia di migliaia di fucili inglesi venduti (non regalati) tramite l'accensione di un mutuo (concesso dai furbi banchieri britannici ed estinto dal Borbone...) ai rivoluzionari massonici siciliani come Ruggiero Settimo, Giuseppe La Farina, Giuseppe La Masa, Piraino ecc.ecc. i quali avevano dichiarato che sarebbero morti in battaglia piuttosto che rinunciare all'indipendenza.
Fuggirono tutti, ma ce li ritroviamo nel 1860 a consegnare la Sicilia ai Savoja e ce li ritroviamo ancora oggi accanto a Piazza Garibaldi ed a Via Vittorio Emanuele.
Erano in 43 a fare la rivoluzione.
(vedi documento: http://www.google.it/books?id=GLszAAAAIAAJ&pg=PA62&dq=ruggiero+settimo+la+farina&as_brr=1#PPA62,M1 )
Ma erano spalleggiati da decine di migliaia di mercenari ungheresi, tedeschi, polacchi ecc.ecc. tutti pagati con il soldo inglese
Quella più che una lotta indipendentista, si rivelò un tradimento della Sicilia.
Il Comitato Siciliano è in possesso di parecchia documentazione storica che utilizzerà di volta in volta per accompagnare tutti gli articoli che trattano dei fasti del periodo borbonico in Sicilia.
Il Comitato, settembre 2007
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